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La tardiva nascita della leggenda della Madonna di Guadalupe

di Marco Corvaglia

Vai alla pagina precedente: Juan Diego e l'immagine "non fatta da mano umana" 

Il prodigio della tilma: storia o propaganda?

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Il prodigio della tilma raffigurato in una stampa pubblicata nel 1648 dal padre oratoriano Miguel Sánchez.

Come abbiamo visto, la tradizione colloca nel 1531 le apparizioni della Madonna di Guadalupe all'indio Juan Diego e la conseguente comparsa soprannaturale dell'immagine sul mantello (la tilma) dell'uomo, alla presenza di Juan de Zumárraga, il francescano che fu il primo vescovo di Città del Messico.

Secondo il racconto apologetico in lingua nahuatl che è stato tramandato, Zumárraga, dopo aver assistito al miracolo, pregò la Madonna di Guadalupe "con le lacrime agli occhi [...] e le chiese perdono per non essere stato sollecito ad accogliere il suo messaggio" [Nican mopouha, in C. Perfetti, La Madonna di Guadalupe, San Paolo, 2003, p. 61].

Nei giorni successivi, Zumárraga avrebbe fatto erigere la cappellina richiesta dalla Madonna sul Tepeyac, "nel luogo stesso in cui era stata vista da Juan Diego", e "tutti in città si commossero allorché si recarono ad ammirare e pregare la preziosa Immagine. Ne riconoscevano la provenienza soprannaturale" [ivi, p. 63].

 

 

Come nota Gisela von Wobeser, professoressa presso l'Universidad Nacional Autónoma de México, si tratta di un ben noto

schema narrativo, secondo il quale la Madonna appariva a una persona illetterata [...]. Lo scenario dell'apparizione quasi sempre era un luogo recondito e solitario, come un bosco, una grotta, un colle. La Madonna chiedeva al veggente che nel luogo dell'apparizione le si costruisse una chiesa [...]. Gli ecclesiastici quasi sempre diffidavano della testimonianza del veggente. Allora la Madonna appariva nuovamente per reiterare la sua richiesta. Dopo che erano stati effettuati vari tentativi, ella lasciava un segno prodigioso, ad esempio faceva sorgere una fonte d'acqua in un terreno incolto o curava un ammalato, ragion per cui l'autorità ecclesiastica si convinceva dell'autenticità dell'apparizione...
[Gisela von Wobeser, Orígenes del culto a Nuestra Señora de Guadalupe 1521-1688, Universidad Nacional Autónoma de México, Fondo de Cultura Económica, 2020, pp. 159-160]

Nonostante ciò, la commissione storica vaticana che ha operato nell'ambito del processo di canonizzazione di Juan Diego conclusosi nel 2002 ha considerato veritiero il racconto tradizionale dell'apparizione di Guadalupe.

 

 

Uno dei suoi tre membri, il dottor don Eduardo Chávez (dal 2001 anche postulatore della causa di canonizzazione), scrive:

Tutto il lavoro che si andava effettuando doveva passare per le diverse commissioni della Santa Sede specializzate nel verificare e, al momento opportuno, approvare o respingere l'investigazione realizzata. Nel nostro caso, tutti gli esami sono stati totalmente approvati, la Commissione Storica ha portato a termine con successo il suo lavoro scientifico.
[Eduardo Chávez, La Verdad de Guadalupe, ISEG, 2022, p. 41]

 

D'altro canto, Manuel Olimón Nolasco, professore e sacerdote cattolico, ha evidenziato con amarezza che tale commissione "non ha a tutt'oggi sostenuto nessun dialogo con gli storici messicani e negli spazi accademici messicani" [M. Olimón Nolasco, La búsqueda de Juan Diego, Plaza y Janés, 2002, p. 7].

 

 

Don Chávez scrive che "si sono prese in considerazione tutte le opinioni [...]. Si è risposto a tutte le obiezioni" [Chávez, La Verdad de Guadalupe, cit., p. 41].

Al contrario, lo storico padre Stafford Poole ha giustamente sottolineato che nel libro che contiene il frutto dei lavori della commissione (F. González, E. Chávez, J. L. Guerrero, El Encuentro de la Virgen de Guadalupe y Juan Diego), "nella maggior parte dei casi, gli autori preferiscono ignorare le obiezioni e le difficoltà sorte contro la storia delle apparizioni" [S. Poole, Una nueva polémica en la controversia guadalupana, in Olimón Nolasco, op. cit., p. 118].

 

Lasciamo esporre alla professoressa Gisela von Wobeser la posizione degli storici accademici su Guadalupe (e sul vicino e coevo santuario della Madonna dei Rimedi che, secondo la credenza tradizionale, sarebbe sorto a seguito del ritrovamento di una statuetta della Madonna da parte di un altro indio, nei pressi di un'agave):

I santuari della Madonna di Guadalupe e dei Rimedi risalgono ai primi decenni dopo la Conquista, mentre le leggende che spiegano le loro origini sorsero alla fine del XVI secolo o al principio del XVII, furono cioè ricostruzioni posteriori.
[Wobeser, Apariciones de seres celestiales y demoniacos en la Nueva España, Universidad Nacional Autónoma de México, 2019, pp. 11-12]

Un silenzio rivelatore

Stiamo ai fatti.

Nel XIX secolo, lo storico cattolico messicano Joaquín García Icazbalceta raccolse i documenti per scrivere la biografia di monsignor Zumárraga e trovò conferma a quanto già era stato evidenziato da altri: negli scritti e negli atti di Zumárraga, che era stato vescovo di Città del Messico sino alla propria morte (1548), non si trova nessun riferimento né ad apparizioni sul Tepeyac, né a Juan Diego, e tantomeno a un così mirabolante miracolo al quale egli avrebbe personalmente assistito.

Addirittura, in un’opera pubblicata a cura e per volontà di Zumárraga nel 1547, la Regla cristiana breve, viene data una interpretazione teologica del motivo per il quale non avvengono più miracoli.

Vi si legge che il voler vedere visioni e rivelazioni “è mancanza di fede, la quale nasce dalla superbia […]. Non vuole già il Redentore del mondo che si facciano miracoli, perché non ve n’è bisogno, essendo la nostra santa fede fondata per tante migliaia di prodigi, come abbiamo nel Testamento vecchio e nel nuovo" [Regola Christiana, in G. García Icazbalceta, Fr. Giovanni di Zumarraga. Studio biografico e bibliografico, Firenze, Tip. Del Collegio di S. Bonaventura, 1891, p. 314].

Icazbalceta si convinse quindi del carattere leggendario della vicenda [J. García Icazbalceta, Carta acerca del origen de la imagen de Nuestra Señora de Guadalupe de México, México, 1896].

In verità, non era raro che indios convertiti raccontassero di avere visioni soprannaturali.

 

 

Padre Toribio de Benavente, detto Motolinía, uno dei dodici missionari francescani giunti in Messico nel 1524, scriveva:

 

 
Molti di questi convertiti hanno visto o raccontano diverse rivelazioni e visioni che, vista la sincerità e semplicità con cui le dicono, sembrano essere vere; ma siccome potrebbe essere il contrario, io non le scrivo, non le confermo né le smentisco, anche perché molti non mi crederebbero.
[Fray Toribio de Benavente "Motolinía", Historia de los Indios de la Nueva España, Real Academia Española - Centro para la Edición de los Clásicos Españoles, 2014, p. 132]

 

Pertanto, negli anni in cui Zumárraga era vescovo, è anche possibile che un indio avesse effettivamente raccontato di avere avuto un'apparizione della Madonna sul Tepeyac, come la commissione storica vaticana ha cercato, con risultati parziali, di dimostrare.

Tuttavia, sicuramente non esisteva il racconto degli avvenimenti così come lo conosciamo noi e, ciò che più ci interessa, non esisteva la credenza nel prodigio della tilma. In realtà, non esisteva nemmeno la tilma.

La tardiva nascita del culto a quella che sarà poi considerata la tilma di Juan Diego

Nel giugno 1554, dopo sei anni di sede vacante, si insedia il nuovo arcivescovo di Città del Messico, il domenicano Alonso de Montúfar.

 

Il 6 settembre 1556 Montúfar, durante un’omelia in cattedrale, parla della venerazione popolare verso un’immagine della Madonna di Guadalupe esposta in una cappella, un piccolo santuario, sulla collina di Tepeyac e sostiene che essa operi miracoli.

 

 

È, questa, la prima notizia che abbiamo in merito a un'immagine che possa essere identificata con quella che oggi è chiamata la tilma di Juan Diego: ben 25 anni dopo la data della presunta apparizione.  

Si tenga presente che all'epoca la credenza nel potere miracoloso delle immagini, soprattutto mariane, era diffusa: lo storico Luis Weckmann, sulla base delle fonti dell'epoca, evidenzia che, nel periodo 1517-1650, "tra le immagini miracolose della Nuova Spagna, le più numerose - un centinaio circa - sono quelle della Madonna" [L. Weckmann, The Medieval Heritage of Mexico, Fordham University Press, 1992, p. 278].

Appena due giorni dopo l'omelia dell'arcivescovo Montúfar, l’8 settembre 1556 il Provinciale francescano Francisco Bustamante, in una sua predica nella cappella di San José de los Naturales, definisce invece idolatrico quel culto praticato sul Tepeyac nell’eremo di Guadalupe e biasima l'imprudenza di chi dal pulpito propaganda miracoli non provati.  

Le accuse creano scandalo tra i fedeli e vengono presentate all'arcivescovo tre denunce contro Bustamante.

 

 

Secondo quanto risulta dagli atti, conservati nella cosiddetta Información de 1556, vengono ascoltati nove testimoni (sei laici e tre religiosi).

 

 

Come osserva padre Stafford Poole, "tutti i testimoni di questa inchiesta sembrano essere stati favorevoli a Montúfar" [S. Poole, C. M, Our Lady of Guadalupe, The University of Arizona Press, 1997, p. 62].

 

Dalla denuncia e, ancor più chiaramente, dalle testimonianze si comprende però che la devozione verso l'immagine della Madonna di Guadalupe era nuova, quindi non certo risalente al 1531.

 

 

Secondo la denuncia, Bustamante aveva detto 

 
che gli sembrava che la devozione che gli abitanti di questa città hanno portato in un eremo e casa di Nostra Signora, che hanno chiamato di Guadalupe, sia un grande danno per gli indigeni, perché è stato fatto loro capire che quell'Immagine dipinta da un indiano faccia miracoli, e questo ha significato fargli credere che essa sia Dio, contro ciò che loro [i francescani, MC] hanno predicato e insegnato da quando sono giunti in questa terra, e cioè che non devono adorare quelle immagini ma ciò che rappresentano, che sta in cielo; [...] e ha detto anche che non era bene predicare dal pulpito, prima di averli verificati, i miracoli che si diceva ci fossero stati. 
[Información de 1556, in Ernesto de la Torre Villar, Ramiro Navarro de Anda, Testimonios históricos guadalupanos, Fondo de Cultura Económica, 1999, p. 43] 

Il testimone Juan de Salazar (procuratore della Real Audiencia), dice di aver visto "da molto tempo a questa parte, sia al tempo del precedente Signor Arcivescovo [Zumárraga] che del presente, molta gente andare nei campi" a "giocare e compiere altri eccessi", ma "da quando si è divulgata la devozione alla Madonna di Guadalupe, una gran parte di ciò che ha detto è cessata" ed "è stato un grande bene e un grande beneficio per le anime il fatto che si sia iniziata la devozione alla Madonna di Guadalupe" [ivi, p. 53].

Il testimone Alonso Sánchez de Cisneros dichiara che Bustamante ha parlato di "questa devozione nuova alla Madonna di Guadalupe" [ivi, p. 63] e Juan de Masseguer afferma che il Provinciale francescano ha parlato di "quell'immagine recentemente [ayer] dipinta da un indio" [ivi, p. 71]. 

​Del resto, tutto quadra, visto che il 10 gennaio 1570 il cappellano del santuario di Guadalupe, Antonio Freire, in una relazione ufficiale scrive:

 

 
La cappella di Nostra Signora di Guadalupe del Tepeyac [...] è stata fondata ed edificata da circa quattordici anni dall'Illustrissimo Signor Arcivescovo con le offerte date dai fedeli cristiani.
[Descripción del Arzobispado de México, AGI, S. Audiencia de México, fascicolo 280, in González, Chávez, Guerrero, op. cit.p. 401]

 

 

È probabile, come gli apologeti sostengono, che intorno al 1555 Montúfar avesse semplicemente rifondato una cappellina mariana già esistente, ma l'Información de 1556 ci fa capire chiaramente che l'immagine fu realizzata e posta lì non prima della metà di quel secolo.

Il professor Richard Nebel, teologo cattolico e membro dell'Academia Mexicana de la Historia, nota:

In base alle fonti, questo santuario di Guadalupe cominciò a essere centro di un poderoso movimento solo a partire dalla seconda metà del secolo, acquisendo più tardi, nei secoli XVII e XVIII una grande influenza.
[Richard Nebel, Santa María Tonantzin Virgen de Guadalupe, Fondo de Cultura Económica, 2013, p. 138]

 

 

Padre Francisco Miranda Godínez, fondatore dei Centros de Estudios Históricos y de Estudios de las Tradiciones presso l'università di Michoacán, ricostruisce così quanto accaduto dopo l'arrivo dell'arcivescovo Montúfar:

 
Le voci crescenti che in quel luogo si operino miracoli ravviva la devozione dei fedeli, che cominciano a parlare della nuova Immagine, un dipinto in cui è rappresentata una Immacolata, di fattura indigena, con le caratteristiche di una fanciulla meticcia di quindici anni. 
[Francisco Miranda Godínez, Dos cultos fundantes: Los Remedios y Guadalupe, 1521-1649: historia documental, El Colegio de Michoacán, 2001, p. 240]

 

 

Alla luce di tutto quanto sin qui detto, si rivela quindi fallace uno degli argomenti che gli apologeti continuano a ripetere, secondo cui il volto della Madonna di Guadalupe avrebbe prefigurato un meticciato che nel 1531 ancora non esisteva.

Ad esempio, mons. Antonio Staglianò (nel 2022 nominato presidente della Pontificia Accademia di Teologia) ha affermato che "non esisteva il meticciato quando Nostra Signora di Guadalupe apparve impressa in un velo" [A. Staglianò, Et-Et. Il Magistero Pastorale e Teologico, vol. III, Diocesi di Noto, 2020, p. 548].

Ammesso e non concesso che a dieci anni dalla Conquista il meticciato non esistesse, esso sicuramente esisteva ed era diffuso intorno alla metà del secolo.

 

Marcos chi?

Don Eduardo Chávez commenta le parole di Bustamante (riportate nelle testimonianze) a proposito dell'immagine, sottolineando che egli si limitò a dire "che era stato un indigeno di nome Marcos a dipingerla, in un momento di rabbia nella sua predica; egli non mostrò nessuna prova” [E. Chávez, Our Lady of Guadalupe and Saint Juan Diego. The Historical Evidence, Rowman & Littlefield, 2006, p. 80].

In realtà, tutto induce a dedurre che ancora nel 1556 la credenza nell'origine soprannaturale dell'immagine non esistesse nemmeno: nessuno (né l'arcivescovo, né Bustamante, né i testimoni) risulta aver fatto alcun riferimento a questo.

 

Quanto a Bustamante, deve essere sottolineato che egli era in Nuova Spagna dal 1542, ed "è inconcepibile che [...] non avesse conosciuto l'arcivescovo [Zumárraga]. Questo rende tanto più significativi sia i suoi silenzi che la sua ostilità" [Poole, op. cit., p. 62].

Lo storico messicano Edmundo O' Gorman, professore presso l'Universidad Nacional Autónoma de México, in un libro pubblicato per la prima volta nel 1986 notava che, tra i testimoni, "nessuno si stupì del fatto che padre Bustamante avesse attribuito l'immagine al pittore indio chiamato Marcos, e ci si sarebbe aspettati che, se questa notizia fosse risultata nuova all'arcivescovo, egli avrebbe chiamato a testimoniare questo pittore" [E. O' Gorman, Destierro de sombras, Universidad Nacional Autónoma de México, 2016, p. 246].

 

 

È infatti ben noto a chi, con tutta probabilità, Bustamante si riferiva:  a un pittore indio convertito al cristianesimo, conosciuto con il nome di Marcos Cipac de Aquino, che visse fino ai primi anni Settanta di quel secolo.

In un ben noto passo della sua Historia verdadera de la conquista de la Nueva España (la cui scrittura fu conclusa nel 1568), Bernal Diaz del Castillo scrive:

​​

Attualmente ci sono tre indiani a Città del Messico, chiamati Marcos de Aquino, Juan de la Cruz e il Crespillo, così eccellenti nel loro lavoro di intagliatori e pittori che, se fossero nel tempo dell'antico e famoso Apelle o di Michelangelo o di Berruguete, che sono dei nostri tempi, sarebbero annoverati tra di loro. 
[Bernal Diaz del CastilloHistoria verdadera de la conquista de la Nueva España, Editorial Pedro Robredo, 1939, p. 326] 

 

 

Negli Anales del indio Juan Bautista (una sorta di cronaca scritta da un indio cristiano, chiamato Juan Bautista, che viveva nel Barrio de San Juan), ci viene detto che Marcos Cipac aveva avuto come maestro un artista fiammingo, il missionario francescano Pedro de Gante (Pieter van Gent) [cfr. Torre Villar, Navarro de Anda, op. cit., p. 132] (abbiamo già visto come l'immagine presente sulla tilma sia analoga a quelle realizzate all'epoca in varie zone d'Europa tra cui, per l'appunto, l'area fiamminga).

Il presidente della commissione storica, Fidel González, prova a rigettare la possibilità di un'attribuzione a Marcos, sottolineando la scarsità di informazioni che abbiamo su di lui

 
Dove dipinse? Quali sono le sue opere e dove si trovano? Tutto rimane nella nebbia dell'imprecisione e nella mancanza totale di fonti storiche. I dipinti che si suppone siano stati realizzati da questo indio Marcos, se paragonati all'immagine della Madonna di Guadalupe non reggono alla critica storico-pittorica; comparando e analizzando gli elementi plastici delle immagini si comprova che non esiste alcuna relazione fra loro.
[Fidel González, Guadalupe: pulso y corazón de un pueblo, Ediciones Encuentro, 2004, p. 379; cfr. González, Chávez, Guerrero, op. cit., p. 296, nota 99]

​​È appena il caso di far notare che, se non esistono dipinti conservati sicuramente attribuibili a Marcos, non è possibile realizzare nessuna comparazione critica storico-pittorica, e non si capisce come e con quali dipinti la commissione voglia lasciare intendere di averla effettuata. 

Altri silenzi sulla tilma

Il francescano Bernardino da Sahagún aveva iniziato la sua attività missionaria in Messico nel 1529 (quindi ai tempi di Zumárraga).

 

 

Nella sua Historia general de las cosas de Nueva España, composta tra gli anni Quaranta e gli anni Settanta del 1500, Bernardino, analogamente a Bustamante, considera paganeggiante il culto guadalupano sul Tepeyac (all'epoca chiamato anche Tepeyacac o Tepeacac): 

...c'è una collina detta Tepeacac, che gli spagnoli chiamano Tepeaquilla, e ora si chiama Nostra Signora di Guadalupe. In questo luogo [gli indigeni] avevano un tempio dedicato alla madre degli dei che chiamavano Tonantzin, vale a dire nostra madre: là compivano molti sacrifici in onore di questa dea giungendo da terre molto lontane [...]; e oggi che lì è stata edificata la chiesa di Nostra Signora di Guadalupe la chiamano ancora Tonantzin, prendendo spunto dai predicatori che chiamano Tonantzin la Madonna, la Madre di Dio. [...] Sembra questa un'invenzione satanica per mascherare l'idolatria sotto l'ambiguità di questo nome Tonantzin, e ora vengono a visitare questa Tonantzin da molto lontano, come un tempo. Anche questa devozione è sospetta, perché dappertutto ci sono chiese di Nostra Signora, e non vanno ad esse; e vengono da terre molto lontane a questa Tonantzin, come anticamente.
[Bernardino de Sahagún, Historia general de las cosas de Nueva España, vol. III, México, Imprenta del Ciudadano Alejandro Valdés, 1830, pp. 321-322]

 

 

Come si vede, questo afflusso di fedeli non viene nemmeno lontanamente messo in relazione con la presenza di una presunta immagine acheropita della Madonna. 

 

I membri della commissione storica vaticana, cercando una non facile giustificazione per tutto ciò, peggiorano la situazione. Scrive infatti il loro presidente:

 
Tutti [i religiosi presenti in Messico: francescani, domenicani e agostiniani, MC] condividevano l'idea che il culto guadalupano in quel luogo potesse essere pericoloso per la retta maniera di vivere la fede cristiana, poiché lì si sarebbero potuti camuffare antichi culti idolatrici.
[González, op. cit., p. 363]

 

Non è minimamente credibile che gli ecclesiastici del tempo, sapendo del miracolo, presuntamente certificato dal vescovo, lo censurassero per paura dell'idolatria. Sarebbe stato, per loro, come censurare la Madonna.

L'evidente verità è che, a quell'epoca nessuno, nemmeno tra i confratelli francescani del defunto Zumárraga, attribuiva un’origine miracolosa a quell'immagine.

 

 

Il che dimostra che Zumárraga non solo non solo non aveva mai scritto di aver assistito al presunto miracolo della tilma, ma, evidentemente, non lo aveva mai nemmeno detto.

 

 

Ancora alla fine del XVI secolo il francescano Gerónimo de Mendieta dedica il capitolo VII della sua Historia eclesiástica indiana ad "alcuni miracoli che avvennero agli inizi della loro [degli indigeni] conversione" [G. de Mendieta, Historia eclesiástica indiana, México, Antigua Libreria, 1870, pp. 38 e ss.].

Dello strabiliante miracolo della tilma non c'è traccia.

 

 

La commissione storica incaricata dal Vaticano, volendo trovare argomenti a sostegno dell'esistenza storica di Juan Diego, ha raccolto nel libro El Encuentro de la Virgen de Guadalupe y Juan Diego tutti i documenti che attestano la devozione per la messicana Madonna di Guadalupe nel XVI secolo, ma, in questo modo, ha reso ancor più evidente un dato fortemente problematico.

 

 

Fino agli ultimi anni di quel secolo si possono elencare alcune decine di documenti, scritti sia da laici che da religiosi, in cui ci sono riferimenti diretti o indiretti al culto della Madonna di Guadalupe sul Tepeyac, ma molto raramente si fa riferimento all'immagine della Madonna e (al di là di un paio di testi in lingua nauhatl di datazione discussa, di cui stiamo per parlare) non c'è mai il benché minimo riferimento ad una presunta origine miracolosa dell'immagine stessa.

Anzi, ci sono documenti che parlano della presenza di una statua d'argento della Madonna, donata da Alonso de Villaseca nel 1566, e ignorano completamente il dipinto (è il caso degli Anales del indio Juan Bautista [cfr. González,  Chávez, Guerrero, op. cit., p. 325] e della descrizione della cappella lasciataci dal corsaro inglese Miles Philips, che la visitò nel 1568 [ivi, pp. 398-400]). 

Date infondate

Secondo gli apologeti, le più antiche fonti che facciano riferimento al presunto miracolo della tilma sono due testi (anonimi, al di là di attribuzioni del tutto ipotetiche) in lingua nahuatl: un componimento di tono poetico denominato Nican mopouha e un breve racconto tramandato con il nome di Inin huey tlamahuizoltzin, meglio noto come Relazione primitiva, perché, essendo più breve ed elementare del Nican mopouha, si ipotizza sia anteriore a questo.

 

Per Fidel González, presidente della commissione storica nominata dal Vaticano, "il Nican Mopouha [...] fu scritto fra il 1550 e il 1560" [González, op. cit., p. 94].

 

 

Per Eduardo Chávez, membro di quella stessa commissione, esso fu invece "scritto tra il 1545 e il 1548" [Chávez, Our Lady of Guadalupe and Saint Juan Diego, cit., p. 47].

 

In realtà, nessuno sa con certezza quando il Nican mopouha sia stato scritto, e non si esclude che possa risalire alla prima metà del secolo successivo.

 

La questione è complessa, ma qui basti fare riferimento all'equilibrata sintesi presentata dal professor Rodrigo Martínez Baracs, membro dell'Academia Mexicana de la Historia:

 

 
Non esiste una posizione comprovata né in un senso né nell'altro, né quella secondo cui il racconto più antico delle apparizioni sarebbe del XVII secolo né quella secondo cui sarebbe del XVI...
[Rodrigo Martínez Baracs, La aparición del Nican mopohua, in Pilar Máynez, Salvador Reyes Equiguas, Frida Villavicencio Zarza (a cura di), Contactos lingüísticos y culturales en la época novohispana. Perspectivas multiculturales, México, CIESAS, Universidad Nacional Autónoma de México, 2014, pp. 379-380]

Quanto alla Relazione primitiva, essa è contenuta in una raccolta manoscritta di omelie (sermonario) risalente approssimativamente al 1585-1600 [T. Rosas Xelhuantzi, La Relación Primitiva: Análisis del manuscrito Ms. 1475 de la Biblioteca Nacional de México, "Korpus 21", vol. 23, n. 7, 2023, pp. 105-120].

 

 

A tal proposito, don Eduardo Chávez scrive che la Relazione primitiva, "inclusa in un Sermonario del 1600 di Padre Juan de Tovar, S. J., fu scritta approssimativamente tra il 1541 e il 1548" [Chávez, Our Lady of Guadalupe and Saint Juan Diego, cit., p. 47].

Sorprendentemente, al lettore non viene spiegato su che base si asserisca che un testo presente in un manoscritto del 1600 circa risalirebbe al 1541-1548.

Il fatto è che alcuni apologeti "estremi" ipotizzano che il testo della Relazione primitiva contenuto nel "Sermonario del 1600" sia la copia di un originale risalente agli anni Quaranta del 1500.

Essi non forniscono però nessuna giustificazione per questa datazione, in realtà radicata solo in un'arbitraria congettura che, per dirla con O' Gorman, "si originò nell'immaginazione del padre Cuevas" [O' Gorman, op. cit., p. 207] (Mariano Cuevas fu uno storico gesuita, apologeta di Guadalupe, attivo nella prima metà del XX secolo).

 

 

Tale datazione è tanto palesemente arbitraria da non essere stata proposta né nel volume che raccoglie i lavori della commissione (F. González, E. Chávez, J. L. Guerrero, El Encuentro de la Virgen de Guadalupe y Juan Diego, Ed. Porrúa, 2001) né nella descrizione ed analisi delle fonti storiche presente nel già citato libro Guadalupe: pulso y corazón de un pueblo​, scritto dal presidente della commissione, Fidel González.

 

Pertanto, quando in un testo pubblicato dalla principale casa editrice cattolica italiana (San Paolo) si legge che "fra il 1541 e il 1545 viene scritta quella che è oggi considerata la più antica relazione sulle apparizioni. È l'Inin huey tlamahuizoltzin..." [Perfetti, op. cit., p. 20], si tratta di un'asserzione che non ha la minima giustificazione obiettiva.

*****

Incidentali riferimenti al fatto che l'immagine sarebbe "apparsa per prodigio" [Nican motecpana, in Perfetti, op. cit., p. 71] sono presenti in un altro documento, intitolato Nican motecpana.

 

 

La commissione afferma:

Il  Nican Motecpana è uno scritto che, al pari del Nican Mopohua, è in náhuatl, il suo autore fu il meticcio Fernando de Alva Ixtlixóchitl, che lo scrisse nel 1590.
[González, Chávez, Guerrero, op. cit., p. 357]

Il Nican motecpana, oltre a riportare notizie agiografiche su Juan Diego, presenta alcuni miracoli attribuiti alla Madonna di Guadalupe, con l'evidente intento di dimostrare la preminenza del santuario del Tepeyac rispetto a quello concorrente della Madonna dei Rimedi. 

​​Vi leggiamo che, nel corso dei festeggiamenti per l'inaugurazione della cappella richiesta dalla Madonna a Juan Diego, un indio fu accidentalmente ferito da un freccia e morì, ma fu posto davanti all'immagine della Madonna di Guadalupe e "non solamente ella lo risuscitò, ma guarì anche la ferita" [Nican motecpana, in Perfetti, op. cit., p. 68].

Inoltre, a quanto ci viene raccontato, l'indio che aveva trovato la statuetta della Madonna dei Rimedi, essendosi ammalato di peste, non chiese la grazia pregando davanti all'immagine da lui miracolosamente trovata, ma si fece portare dai figli sul Tepeyac. Giunto lì, la Madonna di Guadalupe gli sarebbe apparsa dicendogli:

"Ti ordino che sulla cima del colle, dove sono i maguey [agavi, MC] e dove hai visto la mia Immagine, tu eriga il tempio in cui essa deve restare". [...] All'istante egli guarì. [...] Una volta arrivato, mise mano all'opera di erigere il tempio alla preziosa Immagine della Signora del Cielo, che si chiama "de los Remedios", dove è ora. Terminato il suo tempio, ella entrò e da sé stessa si collocò sull'altare, come si trova oggi...
[Ivi, p. 70]

La commissione giudica il Nican motecpana "uno degli scritti più interessanti e complementari della vita di Juan Diego" [González, Chávez, Guerrero, op. cit., p. 211].

 

 

In verità, a differenza di ciò che la commissione asserisce, l'attribuzione di questo testo (palesemente propagandistico) è dubbia ("come nel caso del Nican mopohua, l'identità dell'autore è [tuttavia] una questione non chiarita per mancanza di informazioni affidabili" [X. Noguez, Documentos guadalupanos, El Colegio Mexiquense, 1995, p. 31]).

 

 

Riguardo alla presunta datazione del 1590, non viene fornita (e non esiste) alcuna argomentazione giustificativa obiettiva.

 

Più recentemente, don Chávez è stato un po' meno perentorio, scrivendo che il Nican motecpana sarebbe stato composto "approssimativamente nel 1590" [Chávez, La Verdad de Guadalupe, cit., p. 255].

Questa datazione, di per sé, non è impossibile, ma rimane puramente ipotetica e bisognerebbe dirlo.

In realtà, l'unico dato certo è che il Nican motecpana, come il Nican mopouha, fu pubblicato per la prima volta nel 1649, in un libro in nauhatl scritto dal cappellano del santuario di Guadalupe, Luis Lasso de la Vega (Huei tlamahuiçoltica).

Alcuni studiosi ritengono plausibile che il Nican motecpana e il Nican mopouha siano per l'appunto opera di Lasso de la Vega e risalgano quindi al 1649 [è la tesi proposta e argomentata in L. Sousa, S. Poole, J. Lockhart, The Story of Guadalupe, Stanford University Press, 1998].

La ancor più tardiva diffusione della leggenda 

In ogni caso, in qualunque momento sia nato il racconto dell'origine acheropita della tilma, quel che è certo è che la sua vera diffusione cominciò solo nel 1648 (quindi pochi mesi prima della pubblicazione del libro di Lasso de la Vega).

 

 

In quell'anno, padre Miguel Sánchez pubblicò il più antico racconto in lingua spagnola delle apparizioni e del prodigio della tilma.

 

 

Lasso de la Vega gli consegnò un testo elogiativo, che Sánchez pubblicò a mo' di postfazione nel proprio libro. 

 

 

Con il gonfio stile seicentesco, Lasso de la Vega confessava che fino a quel momento, lui, come i suoi predecessori, aveva avuto una ben scarsa conoscenza di quei "fatti":

 

Io e tutti i miei predecessori siamo stati Adami addormentati, possedendo questa seconda Eva nel Paradiso della sua Guadalupe messicana tra i miracolosi fiori che la dipinsero...
[El Licentiado Luis Lazo de la Vega, Vicario de la S. Hermita de Guadalupe, al Autor, in M. Sánchez, Imagen de la Virgen Maria Madre de Dios de Guadalupe, milagrosamente aparecida en la Ciudad de Mexico, Imprenta de la Viuda de Bernardo Calderos, 1648, pagina non numerata]

Quante storie

Alla fine del volume El Encuentro de la Virgen de Guadalupe y Juan Diego, la commissione storica vaticana sembra rendersi conto di non aver potuto fornire alcuna prova diretta del racconto dell'apparizione:

 
Qualcuno potrebbe ripetere l'obiezione di Joaquín García Icazbalceta [...]: "Tutti gli apologeti, nessuno escluso, sono caduti in un equivoco inspiegabile in tanti uomini di talento, e cioè confondere costantemente l'antichità del culto con la veridicità dell'Apparizione e del dipinto miracoloso sul manto di Juan Diego. Si sono dati da fare per dimostrare la prima cosa (che nessuno nega, poiché risulta da documenti inconfutabili), insistendo nel dire che così veniva provata anche la seconda cosa, come se tra le due cose ci fosse la benché minima relazione.
[González, Chávez, Guerrero, op. cit., p. 545] 

 

La commissione ricorre allora a un concetto davvero ingenuo:

In realtà, questa obiezione dimostra che chi la pone non comprende l'interdipendenza oggettiva di una dall'altra: non avrebbe potuto esistere questo culto se non fosse partito dal fatto storico dell'apparizione.
[Ibidem]

Il che sarebbe come dire che il culto della Guadalupe spagnola non sarebbe mai sorto se il figlio e la vacca di Gil Cordero, il pastore di Cáceres, non fossero realmente risuscitati, o che Roma non sarebbe stata fondata se la lupa non avesse effettivamente allattato Romolo.

 

In realtà, le cosiddette leggende fondative (quelle, cioè, che in termini fantasiosi mirano a spiegare le origini di una devozione, un luogo sacro, una città) hanno la tendenza a seguire degli schemi narrativi precostituiti e ad arricchirsi via via di dettagli e particolari (talvolta contrastanti), anche in risposta al naturale desiderio di rendere il racconto, al contempo, sempre più stupefacente e più "credibile" (ad esempio, nella Guadalupe spagnola, solo nel XVII secolo l'anonimo pastore protagonista assume il nome di Gil Cordero [cfr. Francisco de San José, Historia universal de la primitiva, y milagrosa imagen de Nuestra Señora de Guadalupe, Madrid, Antonio Marin, 1743, p. 17].

Nel 1651-1653 il padre domenicano Narcís Camós, nella sola Catalogna, visitò 117 santuari mariani le cui origini si raccontava fossero legate al ritrovamento miracoloso di un'immagine sacra (perlopiù da parte di un pastore, grazie all'aiuto di un animale domestico, in una grotta o sottoterra, nei pressi di un albero, di un arbusto o di una sorgente: tutti elementi oggetto di culto nell'ambito degli antichi culti pagani della natura) e 20 santuari mariani che si raccontava derivassero da un'apparizione (con o senza conseguente ritrovamento di un'immagine) [cfr. N. Camós, Iardín de Maria plantado en el principado de Cataluña, Barcellona, Iayme Plantada, 1657 e W. A. Christian, Apparitions in Late Medieval and Renaissance Spain, Princeton University Press, 1981, pp. 16-18]. 

A confermare la mancanza di una tradizione affidabile anche in merito alla Guadalupe messicana c'è la variabilità dei racconti che circolavano dall'inizio alla metà del 1600.

Fornisco qui solo l'esempio che mi sembra più significativo.

Oggi tutti i devoti "sanno" che le quattro apparizioni a Juan Diego sarebbero avvenute dal 9 al 12 dicembre 1531 (e proprio per questo la Chiesa festeggia la ricorrenza della Madonna di Guadalupe il 12 dicembre).

 

 

In realtà, mi sembra evidente che si tratta della consueta stratificazione dei dettagli.

Nella Relazione primitiva, le apparizioni a cui si fa riferimento sono solo due e non sono indicati né l'anno, né la stagione, né il mese in cui i fatti si sarebbero svolti. Inoltre, l'indio e l'arcivescovo protagonisti della vicenda non hanno un nome.

 

 

A proposito: c'è una grave incongruenza nel documento.

 

 

Come è noto a tutti gli studiosi, il testo della Relazione primitiva parla ripetutamente dell' "arcivescovo" (arçobispo, in nauhatl cinque-seicentesco, dallo spagnolo arzobispo) [si vedano le trascrizioni paleografiche, con annessa traduzione in spagnolo, in Noguez, op. cit., pp. 205-210 e in Rosas Xelhuantzi, op. cit., pp. 114-115; cfr.  O' Gorman, op. cit., p. 207].

Ma la sede vescovile di Città del Messico fu elevata ad arcivescovile solo nel febbraio 1546Nel 1531 Zumárraga non era quindi arcivescovo. 

 

 

Ne consegue che probabilmente il racconto originario voleva riferirsi all'arcivescovo Montúfar, non prima del 1555 (da segnalare incidentalmente che gli Anales del indio Juan Bautista collocano proprio in quell'anno l'apparizione stessa: "Nell'anno 1555 Santa Maria di Guadalupe si è degnata di apparire lì sul Tepeyácac" [González, Chávez, Guerrero, op. cit., p. 325]), o che comunque il racconto originario è sorto quando si era ormai perso il ricordo di un periodo in cui quella di Città del Messico era una semplice sede vescovile.

​​Grave il fatto che, per far quadrare i conti, le traduzioni presenti nei libri devozionali "rettifichino" (senza dirlo) il testo della Relazione primitiva e trasformino l'anonimo "arcivescovo" in "vescovo" [come si vede in Perfetti, op. cit., pp. 33-34].  

Nel Nican mopohua,  le apparizioni diventano quattro, nell'arco di altrettanti giorni (e ad esse se ne aggiunge anche una quinta allo zio Juan Bernardino, che viene miracolosamente guarito), il vescovo viene identificato esplicitamente con Zumárraga e ci viene detto che quando tutto iniziò "era l'anno 1531, nei primi giorni di dicembre, [...] era un sabato" [Nican mopouha, ivi, pp. 41-42] (quindi, calendario giuliano alla mano, potrebbe trattarsi del 2 o del 9 dicembre).

 

Gli stessi vaghi dati cronologici sono presentati nel 1648 nel libro di padre Miguel Sánchez [Sánchez, op. cit., fol. 19].

 

 

Solo a partire da quel momento, sulla base delle scarne informazioni fornite da padre Sánchez, le presunte vicende iniziano ad essere collocate convenzionalmente tra il 9 (giorno successivo alla festa del concepimento di Maria) e il 12 dicembre del 1531.

 

 

William B. Taylor, professore emerito della University of California, sulla base di ciò che è contenuto negli Atti del capitolo cattedrale di Città del Messico (Actas de cabildo), osserva:

 
L'assenza [...] di qualunque menzione del 12 dicembre o della Madonna di Guadalupe tra gli eventi religiosi di dicembre negli actas de cabildo di Città del Messico prima del 1648 suggerisce che la storia dell'apparizione come la conosciamo noi non si era ancora affermata, quanto meno non ufficialmente.
[William B. Taylor, Shrines and Miraculous Images: Religious Life in Mexico Before the Reforma, University of New Mexico Press, 2010, p. 106 (nella nota 34 di p. 240, il professor Taylor specifica che "per il periodo precedente al 1648, gli actas de cabildo si sono conservati per i periodi 1524-1630 e 1635-1643")]

La prima versione del racconto in cui compaiano le date 9-12 dicembre è quella pubblicata dal gesuita Mateo de la Cruz nel 1660, 129 anni dopo i presunti fatti: Relacion de la milagrosa aparicion de la Santa imagen de la Virgen de Guadalupe de Mexico, sacada de la historia que compuso el Br. Miguel Sánchez [in Torre Villar, Navarro de Anda, op. cit., pp. 267-281].

È una tilma, ma non è una tilma...

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Juan Diego così come immaginato nel 1752 dal devoto pittore messicano Miguel Cabrera.

Il Nican mopohua e la Relazione primitiva dicono esplicitamente che il tessuto nel quale Juan Diego avrebbe raccolto i fiori e sul quale sarebbe poi miracolosamente comparsa l'immagine della Madonna era la sua tilma (anche detta ayate dal nome della fibra vegetale ottenuta dall'agave con cui tipicamente era fatta).

La parola tilma indica inequivocabilmente un mantello "quadrato o rettangolare che veniva legato intorno al collo e pendeva tra la vita e le caviglie" [P. Rieff Anawalt, Atuendos del México antiguo. Tilma y xicolli, in arqueologiamexicana.mx].

La commissione storica vaticana sottolinea il valore simbolico che la tilma aveva per gli indios, scrivendo che essi "consideravano immagine e tilma come simboli della persona; perciò il fatto che la Regina del Cielo lasciasse la propria immagine sulla tilma di uno di loro costituiva la massima dimostrazione di predilezione che potesse offrire loro" [González, Chávez, Guerrero, op. cit., p. 207].

Il presidente della commissione, professor don Fidel González, scrive che "l'ayate o tilma di Juan Diego dove si trova la pittura o immagine della Madonna di Guadalupe misura 175 x 105 cm." [González, op. cit., p. 152] (dato approssimativo, "poiché il telo non è perfettamente rettangolare" [ibidem]).

Da secoli è stato fatto notare come non sia credibile che quel telo potesse essere realmente la tilma di un individuo appartenente ad una popolazione in cui l'altezza media degli adulti era di poco superiore ai 160 cm. [cfr. M. T. Jaén, C. Serrano. J. Comas, Data antropométrica de algunas poblaciones indígenas mexicanas (aztecas, otomís, tarascos, coras, huicholes), Universidad Nacional Autónoma de México, 1976].

Ecco la risposta del presidente della commissione storica vaticana:

Si risponde a tale obiezione ricordando che, secondo i documenti indigeni, Juan Diego si diresse verso Città del Messico - per cercare un sacerdote che assistesse suo zio moribondo - in piena notte, con una bassa temperatura e, come tutti gli indigeni della sua epoca, dovette portare con sé una coperta abbastanza grande per coprirsi e ripararsi. Non si trattava, quindi, di una specie di "poncho", né di un mantello corto ("ayate" o "tilma"), bensì di una coperta che gli indigeni erano soliti utilizzare negli altipiani del Messico.
[González, op. cit., p. 152  (nel testo González utilizza i due sinonimi spagnoli "manta o cobija", che traduciamo con l'unico termine italiano "coperta"); cfr. González, Chávez, Guerrero, op. cit., p. 229]

Né il libro di don Fidel González né il libro firmato anche dagli altri membri della commissione chiariscono da dove essi traggano la notizia secondo cui "tutti gli indigeni della sua epoca" andavano in giro con una coperta più lunga del corpo per ripararsi dal freddo.

In quello che è il testo di riferimento in merito all'abbigliamento azteca, scritto dalla professoressa Patricia Rieff Anawalt, non trovo nessuna informazione del genere [Indian Clothing Before Cortés: Mesoamerican Costumes from the Codices (University of Oklahoma Press, 1981)].

 

In ogni caso, come abbiamo detto, i testi in lingua nauhatl che gli apologeti guadalupani considerano fonti primarie parlano inequivocabilmente e ripetutamente di una tilma.

Ma, come abbiamo appena visto, don Fidel González, il presidente della commissione storica vaticana su Guadalupe, scrive (usiamo le sue stesse parole) che "l'ayate o tilma di Juan Diego" non era "un mantello corto ("ayate" o "tilma")". 

Bisogna far pacatamente notare che il metodo storico non consente di prendere per oro colato delle tarde fonti apologetiche, oppure di apportarvi rettifiche ad hoc su basi astrattamente ipotetiche, solo a seconda della tesi che si desidera dimostrare. 

Continua

Marco Corvaglia

Pagina pubblicata il 26 gennaio 2024

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