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La storia della Sindone e quei tentativi di colmare i tredici secoli di silenzio

di Marco Corvaglia

Le sindoni prima della Sindone

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La Sindone di Torino: particolare dell'immagine frontale (con colori contrastati).

 

Il fenomeno della diffusione di reliquie considerate tessuti sepolcrali di Gesù si origina in Terra Santa tra il VI e il VII secolo.

La testimonianza più antica è relativa a un fazzoletto funebre, come evidenziato dal professor Andrea Nicolotti, ordinario di Storia del Cristianesimo presso l'Università di Torino:

Per imbattersi nella prima testimonianza a questo riguardo occorre attendere un anonimo pellegrino proveniente da Piacenza che effettuò un viaggio in Palestina fra il 551 e il 637 (probabilmente intorno al 560-570). All'interno del suo racconto si trovano queste parole: "In quella riva del Giordano c'è una grotta nella quale [...] si dice che vi sia il sudario che stette sulla fronte del Signore."
L'Anonimo piacentino è dotato di scarso spirito critico e attinge alle tradizioni orali più disparate. Fra le reliquie più strane che vede vanno annoverati l'abbecedario di Gesù e il tronco su cui sedeva con gli altri bambini a scuola, la brocca dalla quale beveva, le sue impronte rimaste su una pietra sulla quale era salito, le pietre usate per lapidare santo Stefano, le ossa dei bambini uccisi da Erode e il calice con cui gli apostoli dicevano messa.
[Andrea Nicolotti, Sindone. Storia e leggende di una reliquia controversa, Einaudi, 2015, p. 13. L'edizione di riferimento per il testo dell'Anonimo piacentino è: C. Milani, Itinerarium Antonini Placentini: un viaggio in Terra Santa del 560-570 d.C., Vita e pensiero, 1977]

 

Poco più tardi iniziano le testimonianze relative a reliquie costituite da sindoni, nel senso limitativo che la parola ha perlopiù assunto in italiano, cioè teli sepolcrali (in greco la parola sindon [σινδών] poteva invece indicare anche panni di piccole dimensioni).

Tra il IX e il XIV secolo, in Europa, come evidenziato da Nicolas Sarzeaud, dell’Université de Lorraine, comparvero almeno un centinaio tra sindoni e sudari funebri (interi o, soprattutto, in frammenti) di Gesù:

 

Nell'XI secolo la moltiplicazione dilaga. Ci sono tre nuove menzioni nella prima metà del secolo, dieci nella seconda, ventidue nel XII secolo, ventotto nel XIII, ventuno nel XIV...
[Nicolas Sarzeaud, Les Suaires du Christ en Occident, Cerf, 2024, p. 21]

La stragrande maggioranza di questi comparve nell'attuale Francia, particolarmente nel nord-est e nelle aree limitrofe, tanto che si può parlare di un vero e proprio "focolaio settentrionale, centrato sulle piazzeforti dei re di Francia e degli imperatori germanici" [ivi, p. 38].

È bene precisare che per diversi secoli si parlò solo di tessuti mondi, cioè privi di immagini. 

La prima testimonianza (non confermata però da nessun'altra fonte) che faccia riferimento all'esistenza dell'immagine di Gesù su un suo presunto telo sepolcrale risale ai primi anni del XIII secolo, periodo in cui, nel 1204, i crociati conquistano Costantinopoli.

Due seri medievisti accademici, i cattolici Franco Cardini, professore emerito della Normale di Pisa e Fellow di Harvard, e Marina Montesano (Università di Messina e San Raffaele di Milano), fanno infatti riferimento a

Roberto di Clari, un piccardo che compose un racconto degli avvenimenti della quarta crociata e che in due passaggi parla delle reliquie conservate a Costantinopoli. A proposito della chiesa di Santa Maria delle Blacherne [...] ecco la sua testimonianza:
"E tra le chiese ce n'era una, detta Santa Maria delle Blacherne, dove si conserva il sudario nel quale era stato avvolto il corpo del Nostro Signore: ogni venerdì veniva esposto ben ritto, in modo che si potesse vedere distintamente la figura del redentore: ma nessuno, né tra i francesi né tra i greci, ha mai saputo cosa sia stato di questo sudario dopo la conquista della città".
[Franco Cardini, Marina Montesano, La Sindone di Torino oltre il pregiudizio, Medusa, 2015, p. 57]

 

Si può quindi affermare che, prima della comparsa della Sindone di Torino, "tra le varie reliquie o supposte tali candidate a poter essere definite sindoni, nessuna reca impressa la figura intera del Cristo né alcuna fonte ne parla. Con una sola eccezione, come abbiamo già detto. Roberto di Clari" [ivi, p. 99].

Non si può peraltro fare a meno di notare che le chiese di Costantinopoli ospitavano all'epoca centinaia di reliquie improbabili: dalla bacinella con cui Gesù lavò i piedi ai suoi discepoli, ai sandali di Gesù e di Maria, dai canestri della moltiplicazione dei pani e dei pesci, alla lettera che Gesù avrebbe scritto ad Abgar [cfr. N. Guyard, Les Reliques du Christ: Une histoire du sacré en Occident, Cerf, 2022, pp. 67-72].

 

 

Del resto, lo stesso Roberto di Clari, immediatamente dopo aver parlato del sudario citato, scrive che in Santa Maria delle Blacherne c'era anche "la tavola di marmo dove Nostro Signore fu deposto quando fu staccato dalla croce e vi si scorgono ancora le lacrime che Nostra Signora vi pianse sopra" [Roberto di Clari, La conquista di Costantinopoli (1198-1216). Studio critico, traduzione e note di Anna Maria Nada Patrone, Collana storica di fonti e studi, 13, Università di Genova, Istituto di Paleografia e Storia medievale, 1972, p. 228].

Compare la Sindone: avversata, tollerata, contesa

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Riguardo specificamente alla Sindone di Torino (che reca una doppia immagine, frontale e dorsale, di un uomo flagellato, con macchie rosso sangue in vari punti del corpo, come il viso e il costato) non è stato possibile trovare prove della sua esistenza prima del 1355-1356.

 

 

In quel periodo essa risulta comparire in una chiesa collegiata (vale a dire dotata di un capitolo di canonici) fondata poco prima dal feudatario Goffredo I di Charny nel villaggio di Lirey, diocesi di Troyes, nella regione della Champagne, nord-est della Francia. 

Il vescovo di Troyes, Enrico di Poitiers, impone ben presto ai canonici di Lirey di non esporre più quello che egli considera un manufatto con cui si frodano i fedeli.

 

Lo sappiamo da un ben noto memoriale scritto verso la fine del 1389 dal suo successore Pierre d'Arcis, a dire del quale Enrico avrebbe perfino scoperto il nome dell'artista che aveva realizzato l'immagine. 

 

 

Cardini e Montesano avanzano una congettura:

Si può ipotizzare che sia stata la lettura o comunque la conoscenza magari solo indiretta della testimonianza di Roberto riguardante la chiesa delle Blacherne ad avere ispirato a Goffredo [...] l'idea sulla base della quale l'anonimo artista di Troyes di cui parla il vescovo Enrico avrebbe confezionato, magari a puro titolo devozionale e senza alcuna intenzione di dolo, l'immagine poi venerata nella chiesa di Lirey.
[Cardini, Montesano, op. cit., pp. 99-100]

I due accademici lasciano sottintesi due particolari che in realtà sembrano irrobustire la loro ipotesi (che comunque tale rimane, ovviamente): la Champagne, regione storica della Francia in cui si trova Lirey, confina con la Piccardia, da cui proveniva Roberto di Clari e dove il suo racconto si può presumere fosse più noto; inoltre, negli anni immediatamente precedenti alla comparsa della Sindone, fino al 1352, Goffredo era stato governatore della Piccardia

 

Secondo il memoriale, comunque, in seguito alle disposizioni di Enrico di Poitiers, "i canonici di Lirey avrebbero ritirato la reliquia, per poi ricollocarla nella chiesa circa 34 anni dopo, al tempo appunto in cui scrive Pierre d'Arcis" [G. M. Zaccone, La Sindone. Storia di una immagine, Paoline, 2010, p. 110]. 

Pierre d'Arcis vuole che essa sia nuovamente rimossa. 

Il professor Gian Maria Zaccone (Ateneo Pontificio Regina Apostolorum), nel 2017 nominato direttore del Centro Internazionale di Sindonologia (oggi Centro Internazionale di Studi sulla Sindone), osserva che quel vescovo, per il suo atteggiamento, è stato

inutilmente e ingiustamente vituperato da tanti scrittori di cose sindoniche e d'altra parte esaltato come un precursore della critica razionale ai culti popolari. [...] Penso che si debba riconoscere al vescovo onestà e coraggio e che vada compreso e giustificato, in quanto pastore responsabile del gregge a lui affidato. [...] Pierre d'Arcis, vescovo di Troyes, è allarmato. [...] Da dove arriva quell'oggetto così inusitato? Sembra non si sappia o non si voglia dire.
[Ivi, pp. 113-114] 

Per risolvere la contesa, il 6 gennaio 1390 il papa avignonese Clemente VII emana una bolla, emessa nuovamente con  rettifiche non sostanziali il successivo 30 maggio, con cui consente le ostensioni, imponendo però contestualmente che il clero di Lirey (riportiamo dal testo definitivo della bolla),

almeno ogni volta che si faccia un sermone, predichi pubblicamente al popolo e dica con voce alta e intelligibile, cessando ogni frode, che la suddetta figura o rappresentazione la espongono non come il vero sudario del Signore nostro Gesù Cristo, ma come una figura o rappresentazione del detto sudario...
[Nicolotti, Sindone, cit., p. 80 (Archivio Segreto Vaticano, Registra Avenionensis 261, f. 259r)]

 

Pochi decenni dopo, una nipote del fondatore della collegiata, Margherita di Charny, che contende il possesso del telo ai canonici, rimasta vedova, inizia a organizzare delle ostensioni in giro per l'Europa, presentandolo nuovamente come autentico:

 
È sola, ma porta con sé quello che ritiene un grande tesoro, che custodisce con caparbia volontà e che cerca comprensibilmente di utilizzare anche per trarne qualche vantaggio personale.
[Zaccone, La Sindone. Storia di una immagine, cit., p. 140]

 

Infine, Margherita cederà la Sindone al duca Ludovico di Savoia: "il trasferimento fu certamente a titolo oneroso, cioè a fronte di un corrispettivo" [Zaccone, La Sindone. Una storia nella storia, Effatà, 2015, p. 36].

 

 

Pressoché contestualmente al trasferimento di possesso, Margherita riceve infatti dal duca, con atto del 29 marzo 1453, una donazione di 10.000 scudi d'oro e una pensione annua di 1.000 fiorini di piccol peso [cfr. Nicolotti, Sindone, cit., p. 101].

La Sindone diventa ufficialmente una reliquia nel 1506, quando i Savoia ottengono per essa la concessione da parte della Chiesa del culto pubblico (con festa liturgica collocata il 4 maggio).

Mandylion-Sindone?

Nel 1978 il saggista britannico Ian Wilson ha dato una svolta alla sindonologia (la parola, benché teoricamente neutra, nel linguaggio comune indica il campo di studio che, con il concorso di diverse discipline, di fatto sostiene le tesi autenticiste in relazione alla Sindone di Torino).

Wilson, ispirandosi ad una teoria che era già stata avanzata alla fine del XIX secolo, ha formulato un'ipotesi che ha trovato poche adesioni tra gli storici accademici ma si è ampiamente diffusa nel pubblico non specialistico, tramite innumerevoli pubblicazioni sindonologiche.

 

 

L'ipotesi consentirebbe di abbreviare il plurisecolare periodo in cui manca qualunque attestazione in merito all'esistenza della reliquia in questione: la Sindone, lunga quasi 4 metri e mezzo, sarebbe da identificare con l'Immagine (ossia il Mandylion o Volto Santo) di Edessa.

Se le cose stessero così, il telo funebre di Gesù sarebbe quindi comparso a Edessa, a un migliaio di chilometri dai luoghi della sua Passione, alcuni secoli dopo la sua morte, con alle spalle una tradizione leggendaria che - per quanto essa possa valere - non creava alcun nesso con tale morte (come abbiamo visto nella Parte 1). 

Secondo la congettura di Wilson, la Sindone era erroneamente percepita come un piccolo telo su cui era riprodotto solo il volto di Gesù, in quanto nel corso del primo millennio essa sarebbe stata, per motivi non provati, conservata ed esposta piegata così da mostrare solo il viso.

In realtà, il fisico, sindonologo e diacono cattolico Liberato De Caro fa presente:

 

 
La Sindone di Torino mostra la presenza di segni lasciati nella trama del tessuto da differenti piegature, visibili se la si osserva a luce radente, ripiegata in doppio a 4, 8, 12, fino a 48 volte. È scontato che ciò sia successo - cioè che la Sindone sia stata ripiegata più volte - se non altro per gli eventuali spostamenti, essendo il lenzuolo lungo più di 4 m. Se, però, la Sindone fosse stata per secoli ripiegata sempre allo stesso modo, custodita in maniera tale da lasciar vedere soltanto la parte del volto, le fibre dei fili in corrispondenza delle piegature sarebbero state strutturalmente danneggiate in maniera irreversibile, e le pieghe del lino sarebbero così profonde da essere visibili anche a occhio nudo e non soltanto a luce radente.
[Liberato De Caro, Sindone. Un mistero millenario, Fede & Cultura, 2024, p. 148]
 

 

Dal punto di vista storico e iconografico, il professor Zaccone scrive:

La teoria di Edessa ha conosciuto e conosce sostenitori anche di rilievo, e altrettanti che la rifiutano con serie e fondate obiezioni, sia per ragioni storiche sia iconografiche, che conducono a rendere assai remota l'effettiva possibilità che il Mandylion potesse avere dimensioni reali tali da potersi identificare con la Sindone, considerato che la maggioranza delle fonti ce lo descrive come un piccolo asciugamano.
[Zaccone, La Sindone. Storia di una immagine, cit., p. 60]

Lo stesso Zaccone evidenzia che le "ipotesi che vorrebbero identificare queste due immagini" (Mandylion e Sindone) sono "al momento difficilmente percorribili" [Id., Dalle acheropite alla Sindone, in A. Monaci Castagno (a cura di), Sacre impronte e oggetti "non fatti da mano d'uomo" nelle religioni. Atti del Convegno Internazionale, Torino, 18-20 maggio 2010, Edizioni dell'Orso, 2011, p. 320].

Rinunciare a questa ipotesi significherebbe però dover accettare il fatto che la Sindone compaia come dal nulla nel XIV secolo, oppure (come fa una minoranza di sindonologi) dover cercare ipotesi alternative, che dal punto di vista storiografico risultano però ancor più inconsistenti, come vedremo.

 

 

Ciò spiega perché la maggior parte dei sindonologi ha strenuamente cercato conferme alla teoria dell'identificazione Mandylion-Sindone.

 

 

Vediamo di analizzare le principali strade percorse.

Sangue sul volto?

Nel 944 il Volto Santo di Edessa viene trasferito nella capitale dell'impero bizantino, Costantinopoli, e infine collocato nella cappella imperiale di Santa Maria del Faro.

Si diffonde allora una nuova versione del racconto relativo alle sue origini, a noi nota grazie al testo di un'omelia tenuta, in occasione della traslazione, dall'arcidiacono di Santa Sofia Gregorio il Referendario (che asserisce di aver appreso tale versione da testi siriaci da lui personalmente trovati a Edessa): Gesù, "quando era in angoscia per la propria volontaria passione", si sarebbe deterso "i sudori che, essendo angosciato, il suo volto aveva fatto colare come gocce di sangue" [Gregorio Referendario, Omelia, in Nicolotti, Dal Mandylion di Edessa alla Sindone di Torino, Edizioni dell'Orso, 2015, p. 66; cfr. M. Guscin, The Image of Edessa, Brill, 2009, p. 77].

 

 

Il riferimento è chiaramente al sudore misto a sangue che, secondo il Vangelo di Luca [Lc 22, 44], Gesù avrebbe stillato nel Getsemani, prima di essere arrestato dalle guardie del Tempio: così sarebbe prodigiosamente nato il Mandylion.

 

Il sindonologo Mark Guscin, classicista e ricercatore indipendente, scrive:

 

 
Gregorio colloca il momento dell'impressione dell'immagine direttamente nel corso della passione di Cristo, durante la preghiera e l'agonia nel Getsemani. Ciò potrebbe benissimo essere stato un tentativo di spiegare la presenza di macchie di sangue sul tessuto.
[Guscin, The Tradition of the Image of Edessa, Cambridge Scholars Publishing, 2016, p. 53]

 


Quest'interpretazione appare a prima vista del tutto plausibile, ma è irrimediabilmente contraddetta da alcune constatazioni obiettive.

Avanzo qui alcune mie considerazioni.

In premessa, ricordiamo che nessuna delle fonti conservate precedenti all'omelia di Gregorio parla di sangue sul volto del Mandylion (tra i sindonologi è diffusa la convinzione che un riferimento al sangue fosse già comparso in un testo poetico in latino del IX secolo - quindi comunque tardi - ma è una convinzione gravemente errata, come vedremo): tutte collocavano la prodigiosa formazione dell'Immagine in un momento imprecisato della vita pubblica di Gesù o a Gerusalemme, ma comunque prima della Passione (di cui l'episodio del Getsemani costituisce l'inizio). 

Il che è incompatibile con l'ipotesi che su quel volto fosse visibile del sangue. 

È vero che a Edessa, per accrescere la sacralità dell'Immagine, non si consentiva ai comuni fedeli di vederla da vicino. Ma, per l'appunto, era famosissima e venerata, era argomento di prediche e sermoni, e non è credibile che per secoli non fosse trapelata la sua natura di reliquia della Passione, se avesse realmente avuto tale natura.

 

Ipotizziamo comunque che le cose stiano come dicono i sindonologi: nel 944, quindi, Gregorio il Referendario avrebbe implicitamente svelato che l'immagine mostrava il volto insanguinato.

 

 

E allora perché nei secoli successivi, fino alla fine del Medioevo, non troviamo nemmeno una copia o una delle tante riproduzioni artistiche del Mandylion che presenti insanguinato il volto di Cristo?

Due probabili copie bassomedievali sono conservate a Genova (nella chiesa di San Bartolomeo degli Armeni) e in Vaticano (nella cappella di Matilda). Entrambe venivano presentate ai fedeli come l'autentico Mandylion di Edessa. 

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Il Mandylion di Genova e quello di Roma (oggi in Vaticano).

A confermare che deve trattarsi di copie nel complesso fedeli c'è un particolare.

Si raccontava che il Mandylion di Edessa fosse costituito da un'immagine che era stata da Abgar "applicata ad una tavola" e "adornata con oro" [Atti di Taddeo, in Nicolotti, Dal Mandylion di Edessa alla Sindone di Torino, cit., p. 44].

Il che è ciò che si vede anche nei Mandili di Roma e Genova (quest'ultimo è però dipinto direttamente su tavola). 

La cornice dell'esemplare genovese presenta dieci scene che raffigurano episodi della leggenda del Mandylion di Edessa e reca anche l'iscrizione ΤΟ ΑΓΙΟΝ ΜΑΝΔΗΛΙΟΝ (Il Santo Mandilio).

Numerosissime rappresentazioni artistiche bassomedievali del Mandylion di Edessa si trovano tuttora nell'Oriente cristiano, da Cipro alla Russia [cfr. H. L. Kessler, Il mandylion, in G. Morello, G. Wolf (a cura di), Il volto di Cristo, Electa, 2000, pp. 71-89].

Per tutte vale la descrizione presentata da Georges Gharib, che fu docente di Teologia delle icone presso la Pontificia Università Urbaniana di Roma:

Il tipo canonico del Mandilion raffigura il solo Volto di Cristo, senza collo. [...] È assente qualsiasi segno di sofferenza o di passione, contrariamente a quanto si nota sulla "Veronica" occidentale. Ciò esclude la sua identificazione con la Sindone di Torino.
[Georges Gharib, Le icone di Cristo. Storia e culto, Città Nuova, 1993, p. 85]

 

 

*****

È interessante notare che nelle versioni della leggenda precedenti all'omelia di Gregorio il Referendario si trovava già, con funzione di mezzo intermediario del miracolo, un elemento liquido: il sudore (senza sangue) o l'acqua presente sul viso, che Gesù avrebbe asciugato con il tessuto del Mandylion

È il caso degli Atti di Taddeo (VII-VIII secolo):

[Gesù] lavatosi, si asciugò il [ma anche: si prese un'impronta del] viso [oppure: aspetto]. Rimasta impressa la sua immagine nel tessuto, la consegnò ad Anania.
[Atti di Taddeo, in Nicolotti, Dal Mandylion di Edessa alla Sindone di Torino, cit, p. 41; cfr. Ernst von Dobschütz, Christusbilder, Leipzig, 1899, p. 182*

 

 

Nella cosiddetta Lettera dei tre patriarchi, generalmente considerata del IX-X secolo, si parla del solo sudore:

 

Essendosi pulito con esso [il fazzoletto] il sudore del proprio volto immacolato, in seguito si impresse in esso il lineamento della sua santa forma.
[Lettera dei tre patriarchi, in Nicolotti, Dal Mandylion di Edessa alla Sindone di Torino, cit, p. 59;  cfr. Dobschütz, Christusbilder, cit., p. 200*]

Nella Narratio de imagine Edessena, testo greco attribuito all'imperatore bizantino Costantino VII Porfirogenito, scritto poco dopo il trasferimento del Volto Santo a Costantinopoli, è possibile trovare due versioni: una coincide con quella di Gregorio il Referendario (sudore come sangue nel Getsemani), mentre l'altra suona così:

 

 
Il Salvatore si lavò il volto con dell'acqua; poi si deterse da esso il liquido con l'asciugamano che gli era stato dato e fece in modo, divinamente, che il proprio lineamento rimanesse impresso su di esso. 
[Narratio de imagine Edessena, in Nicolotti, Dal Mandylion di Edessa alla Sindone di Torino, cit, p. 81;  cfr. Guscin, The Image of Edessa, cit., p. 21] 

 

Ebbene, se a Costantinopoli sul volto del Mandylion fossero state scoperte macchie di sangue, si sarebbe mai fatto riferimento anche ad una versione in cui si parla di un'immagine impressa dall'acqua? 

Per di più, dopo la redazione dell'omelia di Gregorio e della Narratio, i testi della Chiesa orientale non proporranno più riferimenti al sangue in relazione al Mandylion.

Il Sinassario di Costantinopoli (raccolta di notizie agiografiche per uso liturgico) riprende solo la versione dell'acqua, senza relazione con la Passione ("lavatosi, in esso asciugò il proprio viso intemerato e divino. Per cui, rimasta impressa la sua divina figura  e sembianza nel tessuto..." [Sinassario della Chiesa di Costantinopoli, in Nicolotti, Dal Mandylion di Edessa alla Sindone di Torino, cit. p. 97; cfr. Guscin, The Image of Edessa, cit., p. 95 e Dobschütz, Christusbilder, cit., p. 48**]).

Più tardi, alla fine del XII secolo, anche il teologo Costantino Stilbe, che insegnava nella Scuola del Patriarcato di Costantinopoli, nei suoi Didaskalia, riporta solo la versione dell'acqua:

 

 
[Gesù] chiede dell'acqua e se ne asperge il viso. Lui [...] che si era servito dell'acqua anche a Cana e alla piscina di Siloe per il cieco, eccolo appropriarsi intimamente ancora una volta di quest'elemento. Lui il suo creatore. Prende un tessuto per asciugarsi e vi imprime materialmente - miracolo! - la forma che la mano non ha fatto...
[Bernard Flusin, Didascalie de Constantin Stilbès sur le mandylion et la sainte tuile (BHG 796m), "Revue des études byzantines", 1997,  55, pp. 72-75]

 

Da tutto quanto sin qui esposto appare evidente che nei racconti su menzionati l'acqua, il sudore, il sangue non creano macchie che riproducono la loro essenza, ma hanno valore sacrale, come l'acqua, l'olio, il vino nella liturgia cattolica, o come la saliva con cui  Gesù, nei Vangeli, guarisce ciechi o sordomuti [Mc 7, 33, 8, 23; Gv 9,6].

L'importanza dell'elemento liquido come intermediario del miracolo è espressamente sottolineata nella Narratio de imagine Edessena:

 

 
Grazie ad un umore umido, senza colori, artifizio o pittura, la figura del volto ha preso forma nel tessuto di lino.
[Narratio de imagine Edessena, in Nicolotti, Dal Mandylion di Edessa alla Sindone di Torino, cit, p. 83;  cfr. Guscin, The Image of Edessa, cit., p. 11]

Evidentemente, dopo che si erano diffuse versioni che assegnavano un ruolo centrale all'acqua che era stata a contatto con il corpo di Gesù o al sudore da lui secreto, il continuo rinnovarsi della leggenda aveva portato, nella versione riportata da Gregorio, a creare un collegamento (rimasto peraltro marginale e secondario nella tradizione) con l'unico passo in cui è lo stesso Vangelo a fare esplicito riferimento al sudore di Gesù.

 

Il fatto che in quel passo evangelico si parli anche di sangue non significa quindi che Gregorio stia dicendo che il viso dell'immagine fosse insanguinato.

 

Sangue dal costato?

Restiamo sull'omelia pronunciata nel 944 da Gregorio il Referendario.

I sindonologi che sostengono l'identificazione della Sindone con il Mandylion, traducendo in un determinato modo il testo greco di quest'ampolloso (com'è tipico dello stile bizantino) sermone, sostengono che a un certo punto Gregorio si riferisce al Mandylion come a un telo funebre su cui è rappresentato il corpo di Gesù con la ferita al costato (inflittagli, secondo il vangelo di Giovanni [Gv 19, 34], quando era in croce e già morto).

A loro parere, ciò proverebbe che a Costantinopoli si era scoperto non solo che il Mandylion era insanguinato ma anche che esso raffigurava il corpo di Gesù (benché nessuna fonte ci dia notizia di questa presunta sensazionale scoperta).

Di seguito riporto la traduzione del brano in questione normalmente presentata nelle pubblicazioni sindonologiche.

 

 

Essa inizia con un riferimento allo splendore del volto presente sul Mandylion (formatosi, come abbiamo detto, secondo il racconto dello stesso Gregorio, nel Getsemani):

Lo splendore, invece, - e ciascuno sia ispirato da questa narrazione - è stato impresso dalle sole gocce di sudore agonico del volto del principe della vita, che sono colate come grumi di sangue, e dal dito di Dio. Queste sono le bellezze che hanno colorato l'impronta realmente di Cristo, poiché...
[Alfonso Caccese, Emanuela Marinelli, Laura Provera, Domenico Repice, Il Mandylion a Costantinopoli, in E. Marinelli (a cura di), Nuova luce sulla Sindone, Ares, 2024, p. 97.
Il testo dell'articolo, a cui faremo più volte riferimento come espressione delle più diffuse e divulgate posizioni della sindonologia dal punto di vista storico-filologico, è stato presentato all'International Conference on the Shroud of Turin tenutasi nel 2017 a Pasco, Washington, USA, ed è integralmente disponibile anche in una versione online]

Attenzione, perché stiamo arrivando al punto critico.

 


Tutto ruota intorno a un'espressione greca (...ὅτι καὶ τὸ ἀφ'οὗ κατεσταλάχθησαν ῥανίσι πλευρᾶς ἰδίας ἐγκεκαλλώπισται), che i sindonologi traducono, aggiungendo tra parentesi delle note esplicative:

 

 
...poiché anch'essa [quell'immagine di cui ha parlato prima, il τὸ ἐκμαγεῖον (tò ekmaghéion), ripreso dal solo articolo τό ()], da che esse [le gocce] stillarono, si è abbellita delle gocce del suo proprio fianco.
[Ivi, p. 98]

Essi commentano:

 
Il testo presenta l'impronta del corpo in conseguenza temporale rispetto al sudore del sangue che ha impresso il volto e, nello stesso tempo, in relazione stretta con quello, perché è la medesima immagine che è stata "abbellita" anche dalle gocce (di sangue) del costato.
[Ibidem]

A loro dire, "sull'Immagine edessena, quindi, non si vedeva solo il volto, ma anche il petto, almeno sino all'altezza del costato. Il testo non pone dubbi sull'identità di ciò che è impresso sul telo" [ivi, p. 97].

In realtà, è proprio la traduzione dei sindonologi a porre moltissimi problemi, sia logici che linguistici.

 

 

Gregorio starebbe raccontando che nella notte tra il martedì e il mercoledì della Settimana Santa, Gesù, nel Getsemani, si sarebbe asciugato il volto con lo stesso grande tessuto che, tre giorni dopo, il venerdì, sarebbe stato usato come suo telo funebre (quindi, nelle parole di Gregorio, l'immagine si sarebbe completata in due tempi). 

 

 

Quest'interpretazione del testo (originariamente formulata, alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, dal sindonologo Gino Zaninotto, docente di Religione cattolica, laureato in Lettere e appassionato ricercatore indipendente in ambito storico e filologico) è stata rigettata anche da studiosi propensi a credere all'autenticità della Sindone, come il già citato Mark Guscin, poiché "non può essere supportata né dal testo greco né dalla logica interna" [Guscin, The Image of Edessa, cit. p. 208].

 

 

Come abbiamo visto, i sindonologi traducono l'articolo τὸ con "essa" (con funzione di richiamo all'immagine precedentemente menzionata).

 

Chiunque abbia pratica con il greco sa che, al di là di espressioni correlative e cristallizzate che qui non ci interessano, in quella lingua l'articolo, quando richiama cose o persone precedentemente menzionate (assumendo funzione pronominale anaforica), è seguito dalla particella δέ e si trova tipicamente all'inizio di proposizioni sintatticamente autonome (cfr. N. Basile, Sintassi storica del greco antico, Levante, 2001, pp. 77-79): nessuna di queste condizioni si realizza nel brano in questione.

 

Per qualunque grecista, ma perfino per qualunque bravo liceale che studi il greco, la traduzione più ovvia e naturale dell'espressione τὸ ἀφ'οὗ κατεσταλάχθησαν è: "ciò da cui vennero stillate..." (non "essa, da quando vennero stillate...").

Come Guscin ammette, "la sostanza del testo è che il sudore d'angoscia (come gocce di sangue) adornava l'Immagine proprio come il sangue del suo costato adornava il corpo dal quale il sudore era stillato" [Guscin, The Image of Edessa, cit., p. 208].

Per maggior chiarezza, riporto l'intero brano, nella traduzione del professor Nicolotti:

Ma [l'immagine acheropita] - ciascuno sia ispirato dal racconto - si è impressa grazie ai soli sudori d'angoscia del volto vivificante, stillati come gocce di sangue, e grazie al dito di Dio. Sono queste le bellezze che hanno dato colore alla reale impronta di Cristo, perché anche ciò da cui vennero stillate è stato adornato dalle gocciole del suo stesso costato.
[Gregorio il Referendario, Omelia, in Nicolotti, Dal Mandylion di Edessa alla Sindone di Torino, cit., p. 69; cfr. Guscin, The Image of Edessa, cit., p. 85]

 

 

L'immagine immaginata

I sindonologi, nel loro intervento all'International Conference on the Shroud of Turin del 2017, affermano:

 
Nella Vita di sant'Alessio, testo probabilmente risalente al IX secolo, l'Immagine di Edessa è definita "sanguinea".
[Caccese, Marinelli, Provera, Repice, op. cit., p. 85]

L'informazione è inesatta, ma circola negli scritti sindonologici, ai più alti livelli, da un quarto di secolo, e nessuno l'ha mai esplicitamente corretta.

 

 

Gli autori rimandano (nota 124) ad un'altra relazione, presentata nell'anno 2000 al Congresso mondiale sulla Sindone dal sindonologo Gino Zaninotto.

 

 

Effettivamente, andando a consultare ciò che afferma Zaninotto, si legge:

Già in una Vita di S. Alessio (800?) l'immagine di Edessa è definita sanguinea: "In qua sanguinea domini serva<ba>tur ymago" (DOBSCHÜTZ, op. cit., p. 196*).
[Gino Zaninotto, La Sindone/Mandylion nel silenzio di Costantinopoli (944-1242), in Sindone 2000. Congresso mondiale: Orvieto, Agosto 27-28-29, 2000. Atti, Gerni, 2002, p. 466, n. 8]

 

Zaninotto ha però mal interpretato ciò che ha scritto Dobschütz.

Quest'ultimo, nella pagina a cui Zaninotto fa riferimento, scrive in effetti:

 

 
c. 800 (?) Vita di Alessio, l'Uomo di Dio
[Dobschütz, Christusbilder, cit., p. 196*]

 

 

Immediatamente dopo, Dobschütz elenca sette fonti della Vita che fanno riferimento all'Immagine di Edessa, tra cui, al terzo posto, quella (l'unica) che effettivamente la definisce "sanguinea":

 

 
c) poema latino dal codice Monac. Aug. S. Url. 111, Massmann p. 176
    hinc iter arripiens Edisse <venit> in urbem
     in qua sanguinea domini serva<ba>tur ymago
[Ibidem; le abbreviazioni stanno per Monacensis, Augsburg, Sankt Ulrich]

Come si vede, Dobschütz rimanda esplicitamente al filologo Hans Ferdinand Massmann, che a pagina 176 del suo studio sulle fonti della Vita di sant'Alessio (Appendice D) pubblica il poemetto.

Se si va però a vedere cosa Massmann dice quando descrive le varie fonti (in latino, greco e tedesco) da lui pubblicate, a proposito del testo che a noi interessa si legge:

 

Abbiamo incluso un terzo poema in esametri (purtroppo incompleto) nell'appendice, alla lettera D, dal Cod. Monac. Aug. S. Ulr. 111 (ex cod. 141), 4° cap., del quattordicesimo secolo (ff. 93a [recto] - 96b [verso]).
[Hans Ferdinand Massmann, Sanct Alexius Leben, Basse, Quedlinburg 1843, p. 29]

Il codice è quindi del XIV secolo, non del IX. Nel 2016, Guscin scrive correttamente:

 

Nella versione poetica in latino della Vita di Sant'Alessio del XIV secolo, leggiamo i seguenti versi:
hinc iter arripiens Edisse (venit) in urbem
in qua sanguinea domini serva(ba)tur ymago
[Guscin, The Tradition of the Image of Edessa, cit. p. 116; nella nota corrispondente (n. 23) l'autore scrive: "Massmann, Sanct Alexius, 176-179, dal cod. Monacensis Aug. S. Ulr. 111."]

Guscin non evidenzia però l'errore circolante negli ambienti sindonologici.

Zaninotto non ha compreso che l'indicazione temporale fornita da Dobschütz ["c. 800 (?)"] riguardava l'origine del filone narrativo sulla vita di sant'Alessio, ma non si riferiva anche alle sette fonti da lui indicate in seguito. Basti pensare che tra di esse si trova anche un poema di Konrad von Würzburg, vissuto nel XIII secolo:

 

 
g) Konrad von Würzburg, S. Alexius 266-273 in Massmann 90
[Dobschütz, Christusbilder, cit., p. 197*]

 

 

*****

Il problema non è l'errore di Zaninotto in sé, perché tutti possiamo sbagliare. 

Il fatto è che, proprio perché i singoli possono sbagliare, qualunque disciplina che sia scientifica si fonda su processi autoregolativi, per cui, nel confronto critico, gli errori commessi vengono individuati e corretti dagli altri membri della comunità di addetti ai lavori, ed eliminati. 

Qui ci troviamo di fronte a un dato obiettivamente errato diffuso nel 2000 in un congresso mondiale, riproposto tale e quale, nel 2017, in un congresso internazionale, infine ripubblicato nel 2024 dalla più nota sindonologa italiana.

 

 

Tutto ciò sarebbe impensabile in qualunque ambito scientifico e può accadere solo se quella comunità di addetti ai lavori non è sufficientemente incline al dibattito critico.  

Chiarito questo, torniamo alla nostra fonte del XIV secolo.

 

 

Guscin continua a pensare che essa possa avere un qualche peso a sostegno della tesi secondo cui il Mandylion sia da collegare alla Passione, ma trascura un particolare di fondo: se sul Mandylion ci fosse stato del sangue, non si tratterebbe di un fatto secondario da scoprire spulciando tra isolate e tarde fonti, forzandone magari l'interpretazione.

In particolare, che peso può avere una fonte, scritta molto lontano dai luoghi in cui il Mandylion era stato per secoli conservato e in un periodo in cui nessuno sa con certezza quale fine esso avesse fatto (scompare infatti da Costantinopoli nel corso del XIII secolo)? 

È ovvio che il poeta parla di un'immagine che non ha mai visto.

Non a caso, l'apologeta padre André-Marie Dubarle, pur dedicando alla Leggenda di Sant'Alessio un paragrafo del suo libro sulla presunta "storia antica" della Sindone [A.-M. Dubarle, Histoire ancienne du linceul de Turin, O.E.I.L., 1985, pp. 84-85], pur ben conoscendo il testo di Dobschütz e pur aderendo alla tesi dell'identificazione Mandylion-Sindone, non fa il minimo riferimento alla tarda variante del codice Monacensis e all'immagine "sanguinea".

Ma c'è ancora altro da dire.

 

È un fatto ben noto (si potrebbero citare diverse fonti) che in Occidente il Mandylion era spesso confuso con il velo della Veronica.

 

 

Lo stesso Guscin nota che "le due immagini erano spesso confuse sia in letteratura che nell'arte" [Guscin, The Tradition of the Image of Edessa, cit., p. 192].

Ebbene, il velo della Veronica, lo sappiamo, fu, dal XII secolo, messo in relazione con la salita al Calvario (si veda la Parte 1).

 

Dal tardo Medioevo, alla figura di Veronica che asciuga il volto di Gesù che trasporta la croce è dedicata la sesta stazione del rito della Via Crucis, e nelle rappresentazioni artistiche della Veronica (che iniziano a diffondersi dal XIII secolo) il volto di Gesù appare spesso insanguinato [cfr. G. Wolf, "Or fu sì fatta la sembianza vostra?". Sguardi alla "vera icona" e alle sue copie artistiche, in G. Morello, G. Wolf, op. cit.,  pp. 103-114].

 

Tutto ciò spiega abbondantemente perché un codice in latino del XIV secolo possa, in contrasto con una quantità innumerevole di fonti scritte e iconografiche, aver definito "sanguinea" (insanguinata) l'immagine del Mandylion.

"La forma di tutto il mio corpo..."

Una piccola minoranza di fonti descrive però effettivamente il Mandylion come un telo riproducente l'intera immagine di Gesù.

I sindonologi fanno naturalmente leva anche su questo. 

Propongo qui l'esempio più significativo dell'argomentazione in questione. Le osservazioni critiche che farò valgono comunque per tutti i (pochi) casi analoghi trovati dai sindonologi:

Una valida testimonianza in favore dell'identificazione dell'Immagine di Edessa con la Sindone è stata scoperta dallo storico Gino Zaninotto: il Codice Vossianus Latinus Q 69 ff. 6r-6v, conservato nella Rijksuniversiteit di Leida (Paesi Bassi). È un manoscritto del X secolo che si riferisce a un originale siriaco dell'VIII secolo, periodo in cui fu tradotto in latino dall'archiatra Smira.
[Caccese, Marinelli, Provera, Repice, op. cit., p. 86]

 

Il codice Vossianus Latinus Q 69 è una fonte del X-XI secolo contenente un racconto anonimo secondo cui Gesù, nella sua leggendaria lettera ad Abgar, destinatario del dono del Mandylion, prometteva di inviargli un tessuto raffigurante il suo intero corpo (il racconto era già stato pubblicato da Dobschütz, che si era però basato su dei codici più recenti, del XII secolo).

 

 

La fonte di cui stiamo parlando è un sermone che, nella sua intestazione (Tractatus ex libro Syrorum tranlatus in latinum a domno Smera archiatrali), viene presentato come la traduzione latina di un originale siriaco, a noi comunque non pervenuto e sul cui contenuto, pertanto, nulla possiamo dire.

L'unica cosa che sappiamo con certezza è che il racconto è una palese rielaborazione di una versione latina risalente al 769.

 

 

Il confronto puntuale tra le due fonti è stato pubblicato da Dobschütz in Christusbilder (pp. 137**-138**).

 

Nella fonte risalente al 769 Gesù scriverebbe ad Abgar: "Se desideri vedere fisicamente il mio volto, ecco, ti invio l'immagine del mio volto trasfigurato su un lino" .

Nel codice Vossianus si legge invece che Gesù avrebbe scritto ad Abgar:

 

 
«Se desideri mirare il mio aspetto come corporalmente è, ti invio questo lenzuolo sul quale potrai vedere non solo raffigurato il mio volto, ma potrai guardare la forma di tutto il mio corpo divinamente trasfigurato».
Più avanti il testo prosegue:
Il mediatore tra Dio e gli uomini, al fine di soddisfare in tutto e per tutto il re, si distese con tutto il corpo su un lenzuolo candido come la neve. E allora accadde un fatto meraviglioso a vedere e ad ascoltare. La gloriosa immagine del volto del Signore, come pure la nobilissima forma del suo corpo, per virtù divina si trasformò all'improvviso sul lenzuolo.
[Caccese, Marinelli, Provera, Repice, op. cit., p. 86]

 

 

Il sindonologo padre Dubarle osserva: "Nel testo del sermone c'è dunque un'interpolazione successiva al 769, come si può legittimamente dedurre dalla comparazione dei due testi" [Dubarle, op. cit., p. 60].

Si è tutti d'accordo sul fatto che anche quello riportato nel codice Vossianus sia un racconto leggendario, ma se si vuole pensare che esso sia nato sulla base della presunta scoperta, avvenuta a Costantinopoli, della "vera" natura del Mandylion (coincidente con la Sindone), la tesi è contraddetta dai dati di fatto disponibili.

Infatti, anche se la fonte definisce il Mandylion un telo riproducente l'intero corpo di Gesù, presenta però un racconto inconciliabile con le caratteristiche visivamente evidenti della Sindone (soprattutto - verrebbe da dire - con quelle che sarebbero state evidenti all'epoca, se la Sindone fosse già esistita: sulla base delle testimonianze disponibili, si può dedurre che l'immagine sia diventata, con il trascorrere del tempo, sempre meno percepibile, a causa della degradazione del tessuto, naturalmente soggetto ad ingiallimento per ossidazione).

Le più antiche descrizioni particolareggiate della Sindone risalgono al 1400 e soprattutto al 1500, e confermano l'evidenza dei segni riproducenti le ferite.

Il conte Antoine de Lalaing, che assistette all'ostensione della Sindone avvenuta nel 1503 a Bourg en Bresse, scrive:

La si vede chiaramente insanguinata del preziosissimo sangue di Gesù, come se la cosa fosse stata fatta oggi.
[M. Gachard (a cura di), Collection des voyages des souverains des Pays-Bas. Tome premier, Hayez, Bruxelles 1876, p. 286]

 

Antonio de Beatis, segretario del cardinale Luigi d'Aragona, vide la Sindone a Chambéry nel 1518 e scrisse:

 

 
Si vedono apparire molto nettamente i segni dei colpi, delle corde che legavano le mani, della corona attorno alla fronte, dei chiodi alle mani e ai piedi e soprattutto della ferita al costato.
[Antonio de Beatis, Voyage du cardinal d'Aragon en Allemagne, Hollande, Belgique, France et Italie (1517-1518), Perrin, Parigi 1913, p. 210]

Nel 1534, le Clarisse incaricate di rammendare la Sindone, danneggiata dall'incendio scoppiato nel 1532 nella cappella di Chambéry, scrissero una relazione in cui si legge, ad esempio:

 

 
Noi vedevamo, su questo prezioso quadro, delle sofferenze che non si saprebbero mai immaginare. Vi vedemmo ancora le tracce di una faccia tutta livida e tutta martoriata di colpi, la sua testa divina trafitta da grosse spine, da dove uscivano rivoli di sangue...
[Léon Bouchage, Le Saint Suaire de Chambéry à Sainte-Claire-en-Ville (avril-mai 1534), Drivet, Chambéry 1891, p. 21]

Analoghe osservazioni sono rinvenibili in una lettera scritta il 21 giugno 1582 dal cardinal Carlo Borromeo ai novizi del collegio di Santa Maria di Monza [Montre-nous ton visage, n. 2, 1989, pp. 29 e ss.].

Nel 1599 l'arcivescovo di Bologna mons. Alfonso Paleotti pubblicò quello che fu il primo libro sulla Sindone, contenente una descrizione di tutte le ferite evidenti sull'immagine. Leggiamo:

 
Essendo il Signore col capo tutto insanguinato, il sangue moltiplicando inondò sopra le sacrate chiome, le quali come si può conoscere da i segni, che se ne vedono nella sacra Sindone perderono il nativo colore.
[Alfonso Paleotti, Esplicatione del sacro lenzuolo ove fu involto il Signore et delle piaghe in esso impresse, Heredi di Gio. Rossi, Bologna 1599, p. 68]

Insomma, il racconto presente nel codice Vossianus (che peraltro - sia detto incidentalmente - non parla di un'immagine doppia, frontale e dorsale) non ha nulla a che fare con la Sindone e le sue ferite, che chiaramente rimandano all'idea della flagellazione.

Il fatto è che un racconto leggendario, come quello del Mandylion, può diffondersi, modificarsi, ingigantirsi ovunque, anche (se non soprattutto) laddove nessuno ha mai visto la reliquia protagonista della vicenda.

Vale la pena ricordare che non esiste nemmeno una raffigurazione del Mandylion che lo presenti a figura intera. 

E ancora nell'XI e nel XII secolo, tra le testimonianze di coloro che furono personalmente a Costantinopoli e, se non hanno visto il Mandylion, quanto meno riferiscono ciò che lì se ne diceva, non ce n'è nemmeno una che lo descriva come raffigurante qualcos'altro oltre al volto di Gesù.

In una descrizione di Costantinopoli, di autore anonimo, redatta probabilmente alla fine dell'XI secolo si legge:

Questo preziosissimo lino insignito dal contatto con il volto del Signore Gesù è conservato con una venerazione maggiore rispetto alle altre reliquie del palazzo e tenuto in tanta considerazione da essere sempre custodito in un contenitore d'oro chiuso con la massima cura.
[Krijnie N. Ciggaar, Une description de Constantinople dans le Tarragonensis 55, in Revue des études byzantines, 53, 1995, p. 120]

 

Verso il 1150 un pellegrino inglese notava:

 

 
Queste sono le reliquie che si mostrano a Costantinopoli, nella cappella dell'imperatore: [...] il Mantile [Mandylion] che, messo a contatto con il volto del Signore, ha conservato l'immagine del suo volto.​
[Paul Riant, Exuviae sacrae Constantinopolitanae, t. II, Ginevra, 1878, pp. 211-212]

Verso il 1190 un altro testo anonimo segnala la presenza a Costantinopoli del "santo asciugamani sul quale è dipinto il volto di Cristo, che Gesù Cristo inviò ad Abgar, re della città di Edessa" [Dubarle, op. cit., p. 53].​

È interessante aggiungere che una variante secondaria della leggenda della Veronica, relativa alla sua fase intermedia di sviluppo (quindi ancora senza relazioni con la Passione), racconta che l'immagine donata da Gesù all'emorroissa "guarisce l'imperatore attraverso il contatto con l'intero corpo" [Dobschütz, Immagini di Cristo, Medusa, 2006, p. 182; cfr Id., Christusbilder, cit., p. 281*].

 

 

Si trattava pertanto di una variante che presentava il Velo della Veronica come un'immagine dell'intero corpo di Gesù.

Dal punto di vista strettamente logico e cronologico, non si può pertanto escludere un processo inverso rispetto a quello prospettato dalla sindonologia: l'esistenza di filoni secondari sorti in pieno Medioevo (relativi sia al Mandylion che alla Veronica) secondo cui esisteva un'immagine acheropita di Gesù a corpo intero potrebbe, in teoria, aver dato lo spunto per la creazione di un telo funerario come la Sindone.

Le sindoni della chiesa del Faro e il Mandylion

Molti sindonologi continuano a fare riferimento anche a un'orazione tenuta nel 1201 dal sacrista incaricato della custodia delle numerose presunte reliquie conservate nella cappella imperiale di Santa Maria del Faro, a Costantinopoli:

Nicola Mesarite, custode delle reliquie conservate nella cappella di S. Maria del Faro, nel 1201 dovette difenderle da un tentativo di saccheggio e lo fece ricordando ai sediziosi la santità del luogo, dove erano custoditi, fra l’altro, il soudárion con i teli sepolcrali. «Essi - sottolinea Mesarite - sanno ancora del profumo, sfidano la corruzione, perché hanno avvolto l’ineffabile morto, nudo e imbalsamato dopo la Passione». È logico dedurre che nel menzionare il corpo nudo, Mesarite faccia riferimento all’immagine dell’intero corpo del Salvatore su un lenzuolo.
[Caccese, Marinelli, Provera, Repice, op. cit., p. 93]

Non è logico. 

Mesarite sta citando le dieci più importanti presunte reliquie della Passione presenti nella cappella e al quarto posto ha collocato i su citati teli definendoli entaphioi sindones [ἐντάφιοι σινδόνες], cioè sindoni sepolcrali: al di là del nome generico, nessun elemento obiettivo induce a farli coincidere con quella poi divenuta la Sindone per antonomasia.

Per contestualizzare il tutto, si tenga presente che subito dopo, al quinto posto, Nicola Mesarite cita un asciugamano prodigiosamente "rimasto sino a oggi umido e bagnato avendo asciugato i gloriosi piedi degli apostoli..." [A. Heisenberg (a cura di), Die Palastrevolution des Johannes Komnenos, K. Universitäts-Druckerei von H. Stürtz, 1907, p. 30].

Ma andiamo avanti:

Parlando ai rivoltosi, dopo aver enumerato dieci delle più preziose reliquie, Mesarite prosegue: «Ma io adesso metto davanti ai tuoi occhi il Legislatore fedelmente raffigurato su un asciugatoio e scolpito in una fragile argilla con tale arte del disegno che si vede che questo non viene da mani umane».
[Caccese, Marinelli, Provera, Repice, op. cit., p. 93]

 

 

Senza alcun dubbio, Mesarite sta qui parlando del Mandylion (e del Keramion, cioè una delle tegole a cui, secondo una tarda versione della leggenda - attestata per la prima volta nella Narratio de imagine Edessena - il Mandylion avrebbe prodigiosamente trasmesso la propria immagine). Ma sta distinguendo il Mandylion dalle "sindoni" prima citate.

 

Lo aveva evidenziato già nel 1992 Odile Celier dell'Institut catholique (Università cattolica) de Paris: 

 
Mandylion e tessuti funerari sono, in questo testo del 1201, oggetti ben diversi. Questa distinzione di Nicola Mesarite contraddice alquanto la tesi dell'identità di queste reliquie che alcuni specialisti della Sindone cercano oggi di sostenere.
[Odile Celier, Le signe du linceul. La Saint Suaire de Turin : de la relique à l'image, Cerf, 1992, p. 39]

 

 

Un tessuto tetradiplon

Negli Atti di Taddeo (VII-VIII secolo), e in altre versioni della leggenda da essi derivate, il Mandylion è definito tetradiplon (τετράδιπλον).

Si tratta di una parola che non ha altre attestazioni nel greco antico e medievale, ma è registrata nei dizionari del greco moderno con il significato di "piegato in quattro" (ad esempio nel Dizionario Greco moderno-Italiano e Italiano-Greco moderno curato da Eliseo Brighenti, Hoepli, 1912).

Ian Wilson ritiene di trovare in questa parola una conferma alla sua teoria (sulla quale, come abbiamo visto, si fonda, dal punto di vista storico, buona parte della sindonologia corrente).

Secondo Wilson (e i sindonologi che a lui si rifanno) la parola tetradiplon comproverebbe che il telo era conservato piegato in maniera tale che fosse visibile solo la parte superiore della figura e, con l'aggiunta di una cornice che nascondeva omeri e collo, rimanesse visibile solo il volto.

 

 

In questo modo, la Sindone avrebbe avuto l'aspetto del Mandylion come rappresentato nelle numerose raffigurazioni artistiche sparse nelle chiese dell'Oriente cristiano a partire dall'XI-XII secolo: un volto al centro di un drappo, perlopiù rettangolare. 

 

 

Ciò proverebbe che Sindone e Mandylion sono la stessa cosa.

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Mandylion nella chiesa di Sakli a Göreme (Turchia).

 

 

Leggiamo dall'Enciclopedia dell' Arte Medievale (1991), a proposito delle raffigurazioni del Mandylion:

 

 
Dopo che le leggende relative al mandilio vennero accolte nella liturgia, ne apparvero alcune rappresentazioni, nel sec. 11°, prima nei manoscritti e poi nelle icone e nella pittura monumentale. [...] Questi volti santi sono tradizionalmente composti sullo sfondo di un tessuto simulato, da cui, tuttavia, sparirono rapidamente le frange e nelle opere più tarde la stoffa appare annodata ai bordi. Immagini simili compaiono a partire dal sec. 12° nella pittura murale; in Cappadocia se ne trovano quattro esempi nelle chiese di Göreme...
[Acheropita, in Enciclopedia Treccani Online]

In sostanza, quelle che per i sindonologi sarebbero rappresentazioni artistiche del Mandylion-Sindone piegato in modo da mostrare solo il viso (privo però di sangue), diventano diffuse proprio dopo che, secondo la tesi degli stessi sindonologi, si sarebbe cominciato a scoprire che esso rappresentava anche il corpo di Cristo (insanguinato, a partire dal volto): una contraddizione non da poco.

 

Ma continuiamo a percorrere la tesi di Wilson.

Egli scrive in maniera apparentemente corretta che gli Atti di Taddeo "si riferiscono all'immagine di Edessa come ad un tetradiplon, letteralmente un telo piegato in quattro" [I. Wilson, Icone ispirate alla Sindone, in L. Coppini, F. Cavazzuti (a cura di), Le icone di Cristo e la Sindone, San Paolo, 2000, p. 80].

La Sindone piegata secondo la teoria di Ian Wilson (immagine tratta da I. Wilson, The Shroud, Bantam, 2011, p. 191).

Per piegare in quattro parti un telo è necessario effettuare la piegatura due volte.

 

 

Wilson però illustra la sua teoria con un'operazione che contempla tre piegature (a, b, c) e porta a ottenere in realtà otto strati. E, sorprendentemente, definisce "piegato in quattro" (doubled in four) il telo in questa forma. 

Scrive Wilson:

 
Cosa succede se proviamo a piegare in quattro la Sindone? Se prendiamo una stampa fotografica a figura intera della Sindone, la pieghiamo e poi la ripieghiamo altre due volte, avremo la Sindone in otto (o due volte quattro) parti...
[Wilson, The Shroud. The 2000-Year-Old Mystery Solved, Bantam, 2011, pp. 190-191]

Se il telo si piega invece realmente in quattro parti, la figura rimane visibile fino alla vita.

Mark Guscin sembra essersi reso conto dell'incoerenza della tesi, per come esposta da Wilson, ma ritiene di poterla comunque salvare formulando ipotesi sui significati che si potrebbero dare al termine tetradiplon:

A prima vista, la parola sembra facile da comprendere. È composta da due elementi: "quattro" (tetra) e "piegato in due" (diplon). Tuttavia, significa piegato in due quattro volte (quindi sedici strati), o piegato in quattro strati, o in otto (vale a dire quattro doppi strati)? [...] Non è un compito facile capire capire l'esatto significato di τετράδιπλον. [...] Indipendentemente dal numero di strati che rendono τετράδιπλον il tessuto, è chiaro che questa parola significa che il tessuto era ragionevolmente grande, quanto meno più grande di quello che sarebbe stato necessario per la sola immagine del volto. 
[Guscin, The Tradition of the Image of Edessa, cit., pp. 132-133]

 

 

In realtà, non sembra affatto che le cose stiano così.

Nicolotti fa un'importante osservazione: negli Atti di Taddeo, "la denominazione τετράδιπλον compare nel momento in cui Gesù si asciugò il volto, e non dopo" [Nicolotti, Dal Mandylion di Edessa alla Sindone di Torino, cit., p. 47].

In altre parole, è arbitrario vedere in quell'aggettivo una prova del fatto che il telo fosse conservato piegato in quel modo.

 

 

Ma perché, nel racconto, si specifica che il telo era stato dato a Gesù piegato così?

 

A mio avviso, la chiave di tutto è in qualcosa che nel Medioevo si raccontava a proposito del Velo della Veronica. 

Dobschütz, nel suo fondamentale studio pubblicato - lo ricordiamo - nel 1899, evidenziò che, a proposito della Veronica, la tradizione leggendaria, a un certo punto, parla di un velum triplicatum [Dobschütz, Immagini di Cristo, cit., p. 166], cioè piegato (questo è il significato letterale del participio perfetto latino plicatus) in tre strati:  

 

 
Il panno su cui Gesù aveva impresso il suo volto era ripiegato tre volte e così erano spuntate contemporaneamente tre impronte. Oltre a Roma, avevano l'onore di possedere tale originale Gerusalemme e Caen [errore del traduttore per Jaén, MC] in Spagna.
[Ibidem]

Una fonte del 1390 in francese antico è costituita da Ly myreur des histors, di Jean des Preis, in cui si legge:

Ed egli prese il panno, lo piegò in tre e lo pose sul suo nobile volto; e così il suo stesso volto rimase impresso sulle tre parti del tessuto come fosse lui stesso.
[Jean des Preis d'Outremeuse, Ly myreur des histors, Hayez, Bruxelles 1864, p. 433]
 

Come non mettere in relazione la Veronica piegata in tre con il Mandylion piegato in quattro?

In un'epoca, quella medievale, in cui si fabbricavano false reliquie in quantità, era consuetudine elaborare leggende che giustificassero l'esistenza contemporanea di varie presunte copie prodigiose ottenute per "contatto" con l'acheropita originale:

 
L'essere state generate dal contatto con gli originali conferì loro pari dignità e virtù simili agli archetipi da cui derivavano.
[Emanuela Fogliadini, Il Volto di Cristo. Gli Acheropiti del Salvatore nella Tradizione dell'Oriente cristiano, Jaka Book, 2011, p. 91] 

Fu così per l'immagine di Camuliana (si veda la Parte 1), fu così per la Veronica.

Le fonti ci parlano di diverse copie circolanti anche del Mandylion, presentandole come di varia origine (due si sarebbero trovate a Edessa secondo la Narratio de imagine Edessena [Guscin, The Image of Edessa, cit., p. 47], una sarebbe stata ad Alessandria d'Egitto, intorno al VII secolo [cfr. Nicolotti, Dal Mandylion di Edessa alla Sindone di Torino, cit., pp. 92-93, n. 5], una sarebbe stata ottenuta prodigiosamente per contatto nel X secolo, a Costantinopoli, su richiesta di san Paolo di Latros [cfr. Dobschütz, Christusbilder, cit., pp. 216-217*]). 

 

 

Pertanto, l'interpretazione più coerente con i dati di fatto disponibili è che il riferimento al panno τετράδιπλον implicasse una giustificazione dell'esistenza contemporanea di più presunti Volti di Edessa. 

Una storia antica per la Sindone, a tutti i costi

 

Come accennavamo all'inizio, ci sono sindonologi che, persuasi della fragilità dell'identificazione Mandylion-Sindone, hanno poi proposto una tesi ancor più insostenibile.

 

Mi riferisco in particolare a tre sindonologi spagnoli che hanno dichiarato nel corso dell'International Conference on the Turin Shroud, tenutasi ad Ancaster, in Canada, nel 2019:

 
Non possiamo sostenere l'ipotesi che identifica il Mandylion e la Sindone come una sola e identica cosa. Questa conclusione ci ha portato a cercare un punto di vista alternativo [...].
Come nuova plausibile ipotesi, abbiamo trovato indizi promettenti nell'Icona di Beirut...
[César Barta, Pedro Sabe, José Manuel Orenga, The Beirut Icon and the Holy Shroud, in R. G. Chiang, E. M. White (a cura di), Science, Theology and the Holy Shroud: Edited Papers from the 2019 International Conference on the Turin Shroud, Doorway Publications, 2020, pp. 278-279. L'articolo è citato come degno di considerazione dal fisico De Caro in Sindone, cit., p. 148]

Il racconto dell'immagine di Beirut, che conserviamo sia nella versione che greca che in traduzione latina, fu letto nel corso del secondo Concilio di Nicea, tenutosi nell'anno 787.

 

Si tratta di una leggenda, dal tono antisemita, incentrata su un dipinto raffigurante Gesù: dimenticato da un cristiano in una casa poi frequentata da ebrei, esso sarebbe stato da questi oltraggiato e trafitto negli stessi punti nei quali, secondo il racconto evangelico, era stata ferita la persona di Gesù. Il dipinto avrebbe così iniziato a sanguinare.

 

​Scrivono i tre sindonologi:

 
Naturalmente non dovremmo prendere questa leggenda alla lettera e presentarla come un fatto storico. Non è necessario credere che l'icona sia stata letteralmente inchiodata, trafitta, e che a causa dei maltrattamenti siano fuoriusciti sangue ed acqua. La leggenda cerca semplicemente di spiegare perché l'immagine comprendesse il corpo intero, con il sangue e le ferite della crocifissione (evidenziando la ferita al costato). Segnaliamo che questa leggenda descrive l'icona come un dipinto dell'intero corpo (integrae staturae) con le ferite della Passione. Da notare che mette in evidenza la ferita al petto ma non fa menzione della corona di spine. Inoltre, l'immagine inizialmente non era stata notata dall'ebreo. Ancora oggi molte persone hanno bisogno di aiuto per riconoscere la debole immagine della Sindone.
[Ivi, p. 281]

 

Innanzitutto (ma questo vale anche per l'identificazione Mandylion-Sindone), se la Sindone fosse realmente il telo sepolcrale di Gesù, è improbabile che la comunità cristiana avesse con il tempo dimenticato tale "particolare", tanto da dover poi ricorrere a fantasiose leggende esplicative.

Detto questo, l'immagine di cui parla la leggenda di Beirut è "degnamente dipinta" (ἐν σεμνοῖς μὲν ἦν ἐζωγραφημένη/honeste depictam [E. Lamberz (a cura di), Acta Conciliorum Oecumenicorum, Series Secunda, III, 2, De Gruyter, 2012, pp. 318-319; cfr. Barta, Sabe, Orenga, op. cit., p. 280]).

Secondo una variante del testo greco, l'immagine sarebbe invece dipinta "su tavola"  [ἐν σανίσι: Lamberz, op. cit., p. 318 (codice Vaticanus Graecus 836, indicato nell'apparato critico con la lettera V)].

 

 

Nessuna delle due definizioni legittima l'identificazione con la Sindone.

Da nessuna parte, nel racconto, si lascia poi intendere che si trattasse di un gigantesco telo lungo quasi quattro metri e mezzo, raffigurante il Cristo morto con immagine frontale e dorsale.  

 

 

Si parla di un'immagine dimenticata dal cristiano (τὴν εικόνα τοῦ κυρίου ἀφῆκε λησμόνησας/imaginem domini dimisit oblivioni [Lamberz, op. cit., pp. 320-321; cfr. Barta, Sabe, Orenga, op. cit., p. 280]) e poi, in un primo tempo, non vista dall'ebreo, che non aveva osservato con attenzione quella parte della casa (μὴ θεωρήσας  τὴν εικόνα τοῦ κυρίου ὅτι ἵσταται ἐκεῖ· οὐδὲ γὰρ κατενόησε  τὸν τόπον ἐκείνον/minime contemplatus iconam domini quod staret illic neque enim consideravit locum illum [ibid.]): da nessuna parte nel testo si lascia intendere che l'immagine fosse debole, difficile da percepire.

 

 

A partire dal IX secolo l'immagine sarà identificata con un crocifisso che l'imperatore Giovanni Zimisce porterà come bottino di guerra da Beirut a Costantinopoli [cfr. M. Bacci, "Quel bello miracolo onde si fa la festa del santo Salvatore": studio sulle metamorfosi di una leggenda, in G. Rossetti (a cura di), Santa Croce e Santo Volto, GISEM - Edizioni ETS, 2002, pp. 12 e 56].

In tutto ciò, non c'è nulla che possa essere fondatamente e motivatamente collegato alla Sindone di Torino.

Marco Corvaglia

Pagina pubblicata il 3 giugno 2024

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